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Maria Luisa Daniele Toffanin
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Note biografiche

 

Maria Luisa Daniele Toffanin è nata a Padova e vive a Selvazzano. Ha insegnato negli Istituti Superiori. Nell’ambito dell’Associazione Levi-Montalcini promuove attualmente nelle scuole incontri con l’autore, momenti di poesia, laboratori di scrittura e attività di orientamento scolastico. Si dedica anche alla presentazione dei suoi libri con associazioni culturali di Padova e di altre città; collabora, con recensioni e saggi, a varie riviste, a iniziative e convegni promossi da ‘Oltreoceano-CILM’ dell’Università di Udine. Nel Cenacolo di poesia di Praglia Insieme nell’umano e nel divino ideato con l’Abate p. Norberto Villa, dà vita a eventi culturali.

È socia del P.E.N. Club Italiano. Ha ottenuto numerosi premi e lusinghieri consensi di critica sia per l’inedito che per l’edito. Sue poesie figurano in antologie e riviste nazionali e internazionali quali Oltreoceano e Studi di letteratura Latinoamericana/Estudios de literatura Latinoamericana. Ha pubblicato i seguenti volumi: Dell’azzurro ed altro (1998, 2000), A Tindari (2000, 2001 - Premio Sorrentinum), Per colli e cieli insieme mia euganea terra (2002), Dell’amicizia-my red hair (2004, 2006 - Premio Venafro), Iter ligure (2006 - Premio Il Portone), Fragmenta (2006 - opera ampiamente premiata), E ci sono angeli (2011), Appunti di mare (2012), L’attesa perlata di stelle e rugiada (2014 - finalista Premio Angelo Musco), Segreti casentini ed oltre a primavera (2015 - Premio Il Portone 2014), Florilegi femminili controvento (2015 - finalista Premio Carrera), Sottovoce a te madre (2015 - Premio Il Portone), I luoghi di Sebastiano, in collaborazione con Massimo Toffanin (2015).

Inoltre ha curato Una Padova altra. La libreria Draghi: osservatorio di cultura (2012) e con Mario Richter la pubblicazione degli Atti del convegno Il sacro e altro nella poesia di Andrea Zanzotto (2013) da lei organizzato.

Della sua opera hanno scritto, tra i molti: Giorgio Barberi Squarotti, Marilla Battilana, Graziella Corsinovi, Sirio Guerrieri, Paola Lucarini, Luciano Nanni, Nazario Pardini, Bino Rebellato, Paolo Ruffilli, Giuseppe Ruggeri, Gerardo Vacana, Stefano Valentini, Norberto Villa, Andrea  Zanzotto, in particolare Mario Richter in La poesia di Maria Luisa Daniele Toffanin e Silvana Serafin in Pensieri nomadi – La poesia di M.L.D.T.

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www.literary.it/marialuisadanieletoffanin

 

Note critiche

 

La poesia di Maria Luisa Daniele Toffanin

Una recensione di Mario Richter

Fra le innumerevoli voci che arrivano a farsi sentire nell’affollato mondo della poesia d’oggi, nel grande e spesso disorientante brusio letterario, dà conforto riconoscere ogni tanto parole di verità, ascoltare accenti sinceri di vita, ritmi che si accordano spontaneamente con i palpiti del cuore e della natura. Dopo aver passato i suoi più giovani e trepidi anni nell’ascolto, nel calore degli affetti familiari, nella contemplazione delle segrete liturgie celebrate nel grande tempio della realtà naturale, nello studio sensibile dei nostri maggiori poeti antichi e moderni oltre che nell’insegnamento vissuto con la responsabilità della più delicata delle missioni, Maria Luisa Daniele Toffanin ha quasi improvvisamente e imperiosamente sentito prorompere in sé, dal profondo, come un’inattesa fioritura in stagione avanzata, tutto un mondo di sensazioni, di emozioni, di ricordi, di immagini, di luci, di suoni e di voci, di affetti.

Ciò è avvenuto fra il 1995 e il 1998, l’anno in cui è stato offerto al pubblico il suo primo libro, quello intitolato Dell’azzurro ed altro, nel quale la Toffanin ci ha messo subito di fronte a una lingua lirica già chiaramente formata, una lingua sua, evidente risultato, appunto, di una felice sotterranea conquista, di una lunga meditazione di altri poeti lirici del nostro tempo (da Valeri a Cardarelli, da Solmi a Montale…), ma tutto sempre saggiamente controllato da una educazione letteraria che non consente gli eccessi e lascia trasparire una misura che ha radici antiche e profonde negli strati più eletti della nostra tradizione poetica.

Ciò che risulta subito evidente è che la sensibilità della Daniele Toffanin passa attraverso un'osservazione impressionistica del mondo. I colori, le luci, i movimenti delle cose visibili sono colti nell'incanto del loro immediato e fugace apparire. Ma queste rivelazioni del mondo non si risolvono nel piacere epidermico e sterile del loro stesso rivelarsi. Sono soltanto un punto di partenza, un'iniziale, una necessaria accensione. L’autrice ne è consapevole. Fin dall’inizio si presenta al lettore con versi che sembrano anche l’esito conclusivo (alludo naturalmente all’attacco con la congiunzione “E”) di una lunga gestazione, fatta di un “brulicare denso | di colori e guizzi” e finalmente risolta in “parole nuove”. Così:

E dentro sento

un brulicare denso

di colori e guizzi

di stemperarli

in acqua ardente

di parole nuove

(“Acquerelli d’amore”, p. 13)

Sono “parole nuove” perché quei colori e quelle luci subito si caricano del denso spessore del tempo vissuto, ricuperano tutto un mondo di memorie, risuscitano emozioni remote e come spente. Per questa operazione che chiamerei 'resurrezionista', diventa essenziale il particolare movimento dei versi nel loro concatenarsi, nel loro accordarsi, quell'arpeggio trepido e delicato che lascia avvertire scansioni codificate (soprattutto il settenario, qualche volta l’endecasillabo...) senza cedere alla loro suggestione normativa, ma sempre tenendosi nel particolare "pentagramma" che la Daniele Toffanin si è costruito e che le consente gli effetti ritmici idonei a riportare alla vita emozioni lontane. Si legga la poesia intitolata “Grido di gioia” (p. 41). È articolata in tre agili strofe:

Abbacinava il sole

la pineta

schioccante perle

d’ambra resinosa

nel canto riarso

– nenia ossessione –

di cicale in riti

delle ore calde.

 

Visioni arcane

sempre presenti

a noi donate

per un istante.

 

Ma è già per l‘animo

grido di gioia,

e anche le voci

del silenzio scuote,

l’istante catturato

oggi all’Eterno

dalla pineta

lungo il mare stesa.

Un'esperienza lontana ("Abbacinava il sole | la pineta...", un'esperienza di tipo essenzialmente impressionistico: la pineta, i bagliori delle resine che colano, la "nenia" delle cicale nel caldo dell'estate) si fa qui valore durevole nel ricordo, si fa esperienza ancora viva nel presente, diventa appunto "grido di gioia", dà voce al silenzio del presente, lo popola di vita ricuperata. L'istante remoto si è trasformato in un valore perenne, raggiungendo l'emozione vertiginosa dell'"Eterno".

Quanto agli accordi, si osservi almeno il sottile arpeggio delle assonanze ("Assonanze" è anche il titolo di una sezione), per cui, al sesto verso, "ossessione" (v.6) riprende il "sole" del verso d'apertura, e poi c'è tutta quella cascata che lega "calde", "arcane", "donate", "istante".

Di solito i ricuperi si risolvono, nei casi migliori, in toni lamentosamente elegiaci, in rimpianti, in dolorosi abbandoni, in quei ripiegamenti decadentistici che lasciano nella pena il cuore. La Daniele Toffanin non cade in questo amaro e comune gorgo di spenta e chiusa rassegnazione. Ecco, per fare un solo esempio, come il suo insopprimibile canto si può accordare col dolore:

Ora che mi sento chiusa

in un tondo d’angoscia

persa in un vuoto di cielo

come se troppe stelle

insieme si fossero spente,

cerco la Cuna d’amore

per dissetarmi di Luce.

(“Casa-cuna”, p. 53)

L’iniziale commosso stupore della Toffanin di fronte al mostrarsi delle cose e dei luoghi ha una tale autentica vitale energia che niente riesce a rimuoverlo, a soffocarlo. Al contrario, quella meraviglia fuggevole dell'attimo, arricchito di tutti gli attimi che l'hanno preceduto (fino ai più remoti), acquista quasi – già nella parola poetica presente – un valore di eternità, anzi di una visione nuova, annunciatrice luminosa di gioia.

Arriverei a dire che in questa gioia ritrovata ci sia qualcosa – anche se ottenuta per vie sostanzialmente diverse – dell'esperienza esemplarmente indicata da Proust, per il quale la felicità consiste nello scoprire il legame che si instaura fra una sensazione provata occasionalmente nel presente e una analoga provata in un lontano passato e che si credeva del tutto dimenticata. Solo il vero artista riesce a fissare il particolare rapporto esistente fra queste due sensazioni analoghe e fra loro distanti, rapporto che viene a costituire una terza realtà, una nuova vita che, appunto, soltanto la poesia (intesa in senso lato) può garantire. Questa è la principale ragione che impedisce al ricordo di rimanere ripiegato in se stesso, esaurendosi in lamento e lasciando il lettore con la pena nel cuore.

Nella poesia della Daniele Toffanin c'è senz’altro (come ho detto) il mondo della memoria, ma si tratta di un mondo sempre riconsegnato alla vita entro un trepido orizzonte di speranza e di eternità.

In questa stessa linea lirica si colloca la successiva deliziosa raccoltina intitolata A Tindari, uscita nel 2000, risultato di un breve soggiorno siciliano della scrittrice. Ma qui l’emozione rimemorativa dei quindici componimenti che la costituiscono articolandosi in due sezioni (“A Tindari”, “Visioni”) trae la sua più viva luce da una commossa immaginazione classica intimamente legata alle manifestazioni di uomini e cose che si propongono nel presente carichi del loro prestigioso passato. La classicità si allarga nel mito e il mito si fa realtà attuale. Non è possibile dimenticare il valore antico, la sana sensualità pagana che nell’undicesimo componimento (p. 21) assumono i “gesti flessuosi” di “fanciulli” e “fanciulle” che fanno festosamente il bagno nel mare di Patti:

Fanciulli vidi

bagnarsi di onde

leggeri i corpi di luna

e fanciulle vidi

alzarsi da schiuma

con ali di cigno

e unirsi insieme

in cerchi di acqua.

 

Forme composte

con gesti flessuosi

di membra di mani

in crateri di argilla

a propiziarsi con riti

l’arcano ignoto silenzio

e vivere eterni nei miti.

 

E noi con l’anima confusa

ormai in catene di acqua e luce.

Il passato remoto rievocato come personale esperienza (“Fanciulli vidi…) ci porta al presente di “noi” separati, certo, ma “ormai” anche irrimediabilmente coinvolti, anche se con l’”anima confusa”, nel miracolo della visione fatta di “acqua e luce” in una realtà trasformata, sospesa nella suggestione di in un tempo senza tempo.

Nella raccolta Per colli e cieli insieme, mia Euganea terra – percorso d’autunno – del 2002, la Toffanin torna con sentimenti rinnovati e particolarmente inteneriti alla sua terra. Come è già bene annunciata dal titolo, la più rilevante caratteristica di questa nuova esperienza lirica è la fusione – favorita in modo determinante da particolari scansioni ritmiche – di sentimenti e cose. Si capisce che questa fusione ha radici solide nell'amore. Prendiamo, ad esempio il testo XXIX (p. 55). Solo a leggere la prima strofa, si rimane tutti presi dal largo respiro di associazioni e d’ immagini:

È l'Amore la luce d'oro

leitmotiv che tutto percorre l'universo

e l'arco nostro di sole

nel dono di sentieri di ginestre

nell'offerta di parole e di gesti.

Qui la nostra immaginazione è portata a percorrere un vertiginoso percorso che dalle vastità dell'universo ci riconduce alla porzione di sole riservata alle nostre povere vite individuali, al "dono" dei sentieri bordati di ginestre fino alle parole e ai gesti della nostra semplice quotidianità. Direi che questa "luce d'oro" assicura l'unità complessiva dell'intera raccolta, che quasi assume il valore di un breve 'canzoniere'. Per questa via la Toffanin scopre nella natura (che è appunto quella dei Colli euganei) il suo fervore vitale, la sua strutturale positività, il suo messaggio segreto, sempre da lei sentito come privilegio e, appunto, come dono.In ogni testo di questa raccolta avvertiamo che la Daniele Toffanin ci porta a perlustrare con sorpresa qualcosa di vero, di profondo e autentico, qualcosa che noi tutti proviamo senza però sapergli dare un’espressione, una forma che ce lo renda chiaro alla coscienza nella sua specifica, nella sua luminosa verità.Le cose non sono mai descritte, non sono mai lasciate nella loro inerte separatezza, nella loro fredda e distaccata oggettività, nel loro essere altro (che di solito non va al di là di un ‘altro’ di convenzione). Al contrario, nella particolare esperienza della Daniele Toffanin, le cose sono portate alla presenza e alla vita tramite un vigoroso atto d’amore che il più delle volte risulta vittorioso, imprimendo ai singoli versi un respiro che si trasmette al lettore in modo quasi concreto. È un atto d’amore fatto di energia, di partecipazione vitale, di primordiale fiducia nel creato e nel suo senso. Alla luce di ciò, l’”insieme” del titolo s’illumina nel suo duplice possibile significato, riferendosi, certo, ai “colli e cieli” e forse all’unitarietà della raccolta, ma anche a un andare “per colli e cieli” insieme, cioè in compagnia di due o più persone, e magari con tutti noi. Basti osservare, ad esempio, come i fiori entrano nello spazio umano e si confondono, per gente che va e osserva, col mistero delle nostre sillabe (VIII componimento):

E si va in radure

smarriti all’incanto

di fiori e sillabe strane.

 

Topinambur
esotico Suono

che a danza ci muove

nel sogno del giallo…

In tutto ciò c’è spesso anche, naturalmente, l’esperienza del dolore, che tuttavia nella Toffanin, come già abbiamo avuto occasione di accertare, non prende mai il sopravvento. In lei il dolore è tenuto sotto controllo, non gli è concesso di avvilire la forza creatrice. Infatti, quando appare col suo insopportabile peso (specie nel ricordo delle persone care e perdute), è subito trasformato in immagini lievi, in colori vivi e delicati, in chiare e rasserenanti visioni. Insomma, il dolore, ad ogni sua apparizione, risulta sublimato, illuminato da una fondamentale riconfortante fiducia:

Trepido a ombre del morire, s'accende

il vivere in lampi dorati dentro (XVI, p. 36).

Ogni incontro col mondo si fa esplorazione-creazione ed è ad ogni passo in grado di rivelare insieme la realtà complessa dell’anima e quella della natura (la natura dei colli). Il momento fugace della contingenza si sposa con l'Eterno, la natura respira e le cose mute parlano.

Così si attua una sorprendente rivelazione di vita, di vita segreta. "Si sente – per riprendere le pertinenti parole che Andrea Zanzotto (a cui i Colli euganei sono particolarmente cari) ha voluto scrivere su questa raccolta – che questo discorso già nutrito continuerà col più costante senso di amore-dovere progredendo in un necessario cammino".

Si diceva prima del dolore e del particolare significato rigeneratore che esso assume nella Daniele Toffanin. Questo sentimento è diventato il motore centrale e onnipresente del libro poetico che nel 2004 la Daniele Toffanin ha voluto dedicare a un’amica e collega, una cara grande amica padovana dalla “rossa criniera”, prematuramente scomparsa. Il ricupero orfico si risolve nel canto, quasi sempre scandito dal verbo-valore “lavava”, solitamente iterato (“lavava lavava”), quasi a suggerire un’aerea, un’incantata continuità in un passato che sta già come sospeso in una sua mitica lontananza. Può darsi che l’origine di questa suggestiva e dominante risorsa stilistica sia rintracciabile nella ben nota poesia di Valeri (che la Toffanin conosce e ama) intitolata “Milano”, specialmente nell’arioso endecasillabo “Noi due, sperduti, s’andava s’andava”. Ovviamente ciò nulla toglie alla specificità di “un’opera – per riprendere le pertinenti parole di Gerardo Vacana nella bella Prefazione al libro – che musicalmente e pittoricamente si affida alla ricchezza, alla varietà dei colori e dei toni, più che alla nettezza del disegno e del segno”.

Si leggano almeno questi versi intitolati Leggenda agordina:

Mai ci fu ora d’amicizia

uguale tra noi e la natura

con la gioia dentro accanto

che rara così si respira

età d’oro della vita

nel dopo sempre fabulata

come tempo senza tempo

leggenda solo

delle Dolomiti agordine.

L’amica diventa proiezione di un rimpianto e di una speranza. Quasi assume lo splendore benefico di una divinità del luogo. Tutto un mondo perduto di immagini e di affetti si raccoglie e si esalta in lei, nella sua commossa evocazione, nella sua celebrazione (“E aveva un festoso trionfo | tra le mani e fiaccole accese | per stanare il tempo che passa”, In attesa del primo albore, p. 50). E così la città, Padova, specialmente nella seconda delle due parti di cui si compone il libro (Il nostro tenero tempo e Il nostro tempo maturo), partecipa di questo mitico ricupero e nello stesso tempo si fa espressione di consuetudini amate e perdute, sopraffatte “da un tempo troppo arrogante” (Accendendo due tre parole, p. 45).

Ognuno di noi sa bene quanto nel nostro tempo il viaggio sia sempre più diventato un fenomeno di massa. Decisamente il viaggio si è banalizzato, si è standardizzato, si è ridotto a un prevedibile elenco di stereotipi. Ciò è almeno provato dai racconti e soprattutto dalle immagini fotografiche e dai filmini che gli amici viaggiatori si affrettano a farci vedere al loro ritorno.

Si capisce che questo stato di cose costituisce una difficoltà enorme per chiunque voglia oggi rendere conto con originalità (con verità) di qualche viaggio che fa. Il rischio di essere risucchiati dai luoghi comuni è un buco nero che incombe ad ogni passo di chi viaggia (tanto più che a monte della nostra tradizione preme un’imponente letteratura di viaggio, davvero sterminata, a cominciare dall’Odissea).

Ebbene, del tutto noncurante di tante difficoltà decisamente scoraggianti, la Daniele Toffanin non ha esitato a fare ancora del viaggio, dell’iter – certo incoraggiata dalla felice esperienza di quello precedentemente celebrato in A Tindari – il filo conduttore di un’ulteriore coraggiosa sfida poetica, realizzata nella raccolta che porta il titolo di Iter ligure (Pisa, Edizioni ETS, 2006).

L’autrice ha voluto affrontare (senza spingersi verso l’esotico o lo strabiliante) la quasi domestica Liguria, ossia la regione che da più di un secolo costituisce, specie per la buona borghesia padana, il luogo delle vacanze marine e di un privilegiato riconfortante clima, il luogo turistico per eccellenza.

Ma c’è di più come agente condizionante. Per chi pratica l’arte poetica, la Liguria rappresenta la patria di elezione della poesia del Novecento. Basti dire che a quella regione appartengono alcuni dei poeti più significativi per la poesia del secolo passato, a cominciare da Eugenio Montale (se non altro per la sua enorme influenza) senza dimenticare, prima e accanto a lui, Angiolo Silvio Novaro, Angelo Barile, Camillo Sbarbaro, Giovanni Boine, in buona parte anche il livornese Giorgio Caproni (che però fu ligure soltanto di elezione). Credo che la Toffanin abbia saputo perfettamente difendersi da questi condizionamenti.

C’è da chiedersi per quale ragione, nel titolo, la Toffanin abbia voluto denominare il viaggio col termine latino iter. La prima risposta che sorge spontanea è che iter, diversamente da viaggio, tende a suggerire uno spostamento non solo verso il passato latino della nostra civiltà, ma anche (a dispetto di certi usi burocratici, tipo iter parlamentare) verso qualcosa di alto, di nobile, e comunque di diverso dal normale e banalizzato viaggio moderno. Aggiungerei però che iter può evocare anche l’idea di itinerario, ossia di un percorso che ci allontana dalle piacevolezze di una sensibilità borghese (di un turismo elegante) per orientarci piuttosto verso qualcosa che costituisce una meta, un obiettivo (e qui non riesco a sottrarmi al ricordo dell’ “itinerarium mentis in Deum” di san Bonaventura da Bagnoregio).

Il libro si articola in tre sezioni, riservandoci un’altra sorpresa. I titoli di queste sezioni non ci propongono le tappe di un itinerario di tipo geografico (o magari turistico), ma orientano i pensieri piuttosto verso valori di sentimenti (“Trame d’armonia”), di visioni (“Suoni-Colori”), di percezioni del tempo (“Pause”). C’è insomma una generale e prevalente proposta di interiorità. Ancora una volta c’è l’assunzione della realtà visibile per trasformarla in messaggio umano, in verità dell’anima.

Dicevo del carattere in certo senso nobilitante del termine iter. Ebbene, coerente con questa linea alta e impegnativa, la Toffanin ci mette subito di fronte, fin dal primo componimento (“Umano e selvaggio”) alle articolazioni classiche dalle quali i poemi prendevano normalmente solenne avvio. Avevano una Proposizione dell’argomento e una Invocazione di aiuto alle divinità che presiedevano alla poesia. Nei versi che danno inizio al nostro libro sono appunto riconoscibili questi stessi procedimenti cari alla nostra più illustre tradizione. C’è una invocazione alla natura e alla vita, seguita da una proclamazione della forza poetica, del pensiero poetico “acceso dal nume creatore”.

Tutto ciò è molto suggestivo, perché è ottenuto con mezzi letterari assolutamente moderni e, meglio ancora, con la particolare lingua (essenzialmente lirica) che ormai sappiamo essere propria della Daniele Toffanin.

Nulla in questi versi fa infatti pensare a una volontà classicheggiante, arcaicizzante. In uno schema che certamente riprende un nobilitante gusto antico, sentiamo circolare tutta la freschezza di una vita vera, una vita partecipata, fatta di palpitante presenza, di accordi nuovi, pieni di colore e di luce. Così ci troviamo di fronte a quella che la voce del “poeta” chiama con accenti quasi commossi

Mia natura variopinta regina

di rare essenze radiosa

puella eterna sempre nuova a festa

ed amicizia nel tuo arboreo vivere.

Si noti come anche qui il termine latino puella abbia la funzione di conferire alla sempre rinnovata giovinezza della natura invocata, alla “variopinta regina”, uno spessore di nobiltà antica.

Questa puella non tarda infatti a rivelarsi nella maestà mitologica di Venere “rapita nel sogno d’amore | che non può morire”. Sono versi che leggo nella quarta poesia della raccolta, quella che porta il titolo “Golfi di poesia” (p.18) e che a me sembra uno dei momenti più luminosi e più esemplari del libro:

 

O seni verdi d’Appennino

striati da mani di colore

aperti ai venti odorosi

di vele sartie di pelle

ruvida di fatica e sale,

 

aperti a brezze-echi di poesia

alitata da lontano

ma qui meditante su scogli e

lembi di mare umbratili d’ulivi

 

il respiro lieve di Venere

rapita nel sogno d’amore

che non può morire,

fra ali ancora invocate

a velare il femminino mistero.

 

E Venere dallo smeraldo fluttuante

pura rinasce, o poeta,

col suo primo sorriso

e nella tela immortale s’eterna.

Davvero bello questo felice abbandono, questo gioioso trasporto, rilevabile nelle tre prime strofe unicamente nominali e quasi esclamative, ma soprattutto in quell’arioso, in quell’amoroso attacco “O seni verdi d’Appennino”. Insomma, c’è qui una grande apertura di visione, una partecipazione viva di sentimenti e di affetti, una simpatia sincera per una natura attraente, amata, bella da sempre, e sempre nuova nel suo dono antico. Così è, con diverse tonalità, tutto il libro. Voglio dire che ancora una volta torna a dominare in queste pagine della Toffanin un sentimento positivo della vita, sentita appunto come un dono, come un atto d’amore.

Fa bene, allarga il cuore – in tempi troppo spesso soffocati dal pessimismo e dalla più cupa malinconia (quante sono le raccolte che premono questo tasto!) – sentire una voce orientata alla gratitudine, diciamo pure (nonostante tutto) alla gioia di vivere, una gioia che arriva a sprofondarsi nell’intenso significato di “un morire di speranza” (Al poeta, p. 34).

Ecco la conclusione della seconda parte di Catarsi e scoperta (p. 31). Le parole sono rivolte al precedente “mio cuore”:

E rinato al fermento della vita

come al primo fuoco acceso nel mondo

gioia risenti dentro e sulla pelle,

imbrigliato il treno del tempo reale

al binario dei più segreti battiti.

Non meno rasserenanti e luminosi sono i versi della poesia intitolata “Sono” (p. 33), dove l’io poetico si fonde intimamente con la natura per concludere con questi accenti commossi nella loro bella semplicità:

Sono una donna

che seduta sul molo a Monterosso

nell’aria muta di colori,

si dondola in pensieri con le barche

poi raccoglie la sua anima dal mare

e dal sole attende risposta chiara.

Dicevo prima che l’iter ci accosta all’idea di un itinerario e che, in questo senso, tende a portarci verso un traguardo. Non c’è pagina di questo libro che non ci faccia sentire questa discreta tensione verso una meta non chiaramente definibile, ma solo avvertita in controluce come emozione, sentita dal “cuore ardente” come un altrove delicatamente percepito attraverso le visibili meraviglie colorate della natura ligure e intimamente collegato ai moti segreti dell’anima, talvolta in rapporto con certe lontane emozioni provate nell’infanzia. Ecco uno dei testi che più rivela il senso di questo singolare e suggestivo itinerario. È quello intitolato “Al davanzale del creato” (p. 35):

Sempre ansima la strada del pensiero

su al varco del quesito

e spacca l’aspra pace

intima chiusa a rilento

 

fibrillante ora in frammenti impazziti

con macchia d’ulivo e

graffiante roccia fiorita

dal vento arruffata l’antica armonia.

 

Solo incanto di trasparenza rara

al sublime davanzale del creato

con ali e canti ricompone

il musivo intarsio d’anima

 

e alla mente apre immenso

orizzonte di luce

linea d’aria d’acqua

che lontana riluce dentro.

Ebbene, questo modo di sentire mi sembra restituire al viaggio – all’iter – il suo significato profondo, illuminandolo dall’ interno e respingendo ogni tentazione di facile illustrazione turistica.

Nel 2006 Maria Luisa Daniele Toffanin ha avuto la felice opportunità di riproporsi a un più ampio pubblico con un libro accolto nella collana Elleffe (diretta da Cesare Ruffato) della casa editrice Marsilio, un libro che per molti aspetti ha la funzione di dare un’immagine complessiva dell’opera poetica della poetessa, consentendoci anche di ricuperare, per concludere, i principali aspetti finora sottolineati.

Il titolo scelto per questa nuova importante pubblicazione ci propone una parola latina: Fragmenta. È un titolo che, per quanto riguarda il suo significato, dovrebbe avvertire il lettore circa le non grandi pretese del libro: la parola Fragmenta annuncia infatti, con indubbia modestia, non un’opera organica, ma soltanto dei pezzi, dei frammenti, o magari niente più che degli avanzi, dei rottami, o anche delle rovine, evidentemente di un oggetto unitario scomparso, di un’opera compiuta e organica andata appunto in frantumi.

Tuttavia questo titolo, qualora sia considerato nel suo aspetto formale, rinvia nello stesso tempo a qualcosa di molto alto e prestigioso: rinvia nientemeno che al Canzoniere del Petrarca nel suo titolo colto, che è Rerum vulgarium fragmenta.

Se poi cominciamo a leggere l’opera, il testo liminare che subito incontriamo ha anch’esso un titolo in latino: Introibo. A nessun lettore che oggi abbia una certa età può sfuggire che questa parola (un verbo) ci riporta direttamente, prima ancora che al quarto versetto del salmo 43, alla formula di apertura della messa nella sua forma tradizionale, formula che comporta l’esplicito riferimento alla divinità (Introibo ad altare Dei).

Questo riferimento alla liturgia eucaristica in latino (abbandonata nel 1964, non senza aspri contrasti, col Concilio Vaticano Secondo) porta con sé, fin dall’inizio, una certa nota di ricupero, di ritorno al passato, una sottile delicata venatura di rimpianto, anche se bisogna riconoscere che esiste (o è esistita) l’espressione laica “fare l’introibo” per dire semplicemente che “si entra in discorso”.

Dunque, per queste due iniziali ragioni, il libro della Toffanin ci porta subito su un piano sicuramente alto, arriverei a dire persino un po’ ardito, voglio dire compromettente o rischioso, poiché instaura un inevitabile rapporto, in primo luogo, addirittura con il grande capostipite della poesia lirica occidentale (Petrarca) e, in secondo luogo, con l’atto liturgico più altamente sacro che esista nella nostra cultura (la messa). Si tratta insomma di rispondere in modo adeguato a poesia e religione nelle loro forme più elevate, nelle loro manifestazioni più nobili. Poesia e Religione sono, in certo senso, due archetipi.

Adesso però, di tutto questo, restano soltanto frammenti, e questi tendono a organizzarsi in una sorta di celebrazione, portandoci dal riconoscimento rassicurante degli Archetipi alla speranza a cui sono indissolubilmente legate le Attese (Archetipi e Attese sono le due grandi sezioni che appunto raccolgono – dotandoli di un senso e di una direzione – i frammenti, anzi i fragmenta).

Non credo che la parola Archetipo sia qui usata dalla Toffanin in qualche sua accezione tecnica (alla Jung ecc.). Mi pare di capire che la parola voglia soltanto significare dei modelli costanti, dei punti di riferimento originari e non modificabili, delle verità che uno si trova dentro, per così dire, dalla nascita, come degli a priori. Come si arriva, nel concreto del testo, a questi archetipi?

La domanda ci porta nel cuore stesso dell’opera poetica della Toffanin. Infatti agli archetipi si arriva tramite una ricerca di natura squisitamente lirica, quella che appunto ci propone il libro di cui ci stiamo occupando. Agli archetipi si arriva attraverso un percorso che ci tiene costantemente in contatto con la vita che viviamo, con le emozioni che quotidianamente proviamo, con i dolori che inevitabilmente affliggono i nostri giorni spesso tanto difficili.

Nella Toffanin il mutevole è osservato nelle sue più varie manifestazioni con vigile, con amorosa attenzione, ma è ad ogni istante osservato con l’occhio di chi pensa all’immutabilità degli archetipi. C’è un sentimento che accompagna il lettore lungo tutto il libro: è, in modo più o meno evidente, una tormentosa angoscia legata al timore che le cose non abbiano più alcun senso (il “nonsenso delle cose”, dice l’autrice già da Introibo), un’angoscia legata al timore che tutto si sia irrimediabilmente deteriorato. C’è insomma, alla base, un sentimento tragico della vita. Ma questo timore o questo sentimento tragico comporta anche sempre l’insopprimibile e intima convinzione che l’attuale nonsenso sia il risultato di una perdita, di una realtà perduta o deteriorata, di qualcosa che sia però in qualche modo ricuperabile.

Per questa via frammentata e dolorosa la Toffanin si apre la strada maestra per la sua ricerca, per tentare il ricupero di ciò che permane, di ciò che dà un senso alla vita (gli archetipi). È una ricerca, come ho detto, che non ha nulla di intellettualistico, nulla di intenzionale, di volontario, di costruito. Al contrario, essa si attua nella spontaneità, nello slancio del cuore, in una vitalità sempre rinnovata, e comunque sempre capace di alimentare una liricità particolarmente felice, quella stessa che già si è potuto rilevare nelle precedenti raccolte dell’autrice.

Gli archetipi (o ciò che permane dando senso alla vita) si illuminano via via attraverso la contemplazione, spesso turbata o commossa, delle cose.

È fondamentale in primo luogo il sentimento di una benefica primordiale maternità della natura, il riconoscimento della Madre terra, della sua forza e dei suoi ritmi.

Non è possibile per questo dimenticare un testo che a me pare di sicura e tesa ispirazione, quello significativamente intitolato “Materni scorci” (pp. 36-37). Sono le emozioni suscitate da un limpido tramonto d’ottobre su Padova. Il sole “indulgente sui colli” dà particolare risalto a quelli che la Toffanin, cresciuta nella sua diletta Padova, chiama amorosamente “cari materni scorci”, prima di tutto quelli che danno risalto alle cupole delle basiliche di Sant’Antonio e di Santa Giustina. E così, attraverso i ricordi, si vanno in lei ricostituendo, come in un prodigioso puzzle, i frammenti di un’età “trascorsa percorsa | pei portici avvolgenti | per slarghi luminosi | trasparenti di miracoli”. Con l’avanzare dell’ora, gli “slarghi luminosi” (che per un attimo lasciano intravedere, mi sembra, il Prato padovano per eccellenza, quello della Valle) ci portano alla magnifica contemplazione del “prato della notte”. Ma qui è necessario abbandonare ogni tentativo (sempre indigente) di parafrasi per ripercorrere le vigorose, le luminose e giuste scansioni di un testo nato da un’autentica, da una viva commozione:

Opus musivo nel prato della notte

terso brillante di miti archetipi

Dai primordi riletto dalle genti

Dal limite dell’umana specula

Per trarre gli auspici scalzare il destino

Svelare alfine della madre terra

Quel provvido moto, vero inquisito.

Molto bello, davvero, questo intenso sguardo verso il cielo stellato. Molto bello perché è uno sguardo a cui, in questa poesia, si arriva dopo un progressivo approfondimento e allargamento e innalzamento dei ricordi, da quelli individuali dell’infanzia, a quelli comunitari della città nei suoi più eccelsi monumenti per giungere infine, appunto, a quello di tutta l’umanità fin dalle sue più remote origini, a quel “prato della notte”, a quel cielo stellato che ha ispirato i grandi miti, che ha illuminato le filosofie, prima fra tutte la speculazione che ha reso certo Platone circa la realtà del suo mondo delle idee, immutabile ed eterno, fonte infinita di consolazione e di speranza.

Qui la Toffanin ha sicuramente sfidato un luogo quasi comune, perché non c’è dubbio che il cielo stellato è stato spesso celebrato in grandi testi (specie moderni) di poesia e di pensiero, da Leopardi, a Nerval, da Rimbaud ad Apollinaire, per nominare soltanto alcuni fra i maggiori. Ma la Toffanin ha saputo felicemente staccarsi dalla imperiosa suggestione di quei modelli famosi. È rimasta se stessa. È riuscita a darci una visione generale che nasce dalla sua città, dalla sua realtà vissuta negli anni, dalla sua specificità. Insomma ha percorso col suo ritmo una strada sua, fatta (a me pare) di emozioni autentiche, non propriamente letterarie.

La madre terra ispira molti altri testi del libro. Se ne può segnalare almeno uno, quello intitolato (come la sezione che lo comprende) “In stanze della vita” (p. 39):

È fiorito tutto improvviso

il prato del Toro

in lucenti petali lievi

nuove corolle di vita

 

come, dopo amare piogge,

su slarghi di sole

spaccano la terra

dal profondo grembo

 

primizie-tenerezze

nutrite con amore-magie

tramate dall’antica Madre

in stanze della vita

 

raccolte da altre acerbe mani

pensose leggere

in sacri riti cari al Cielo

a perpetuare

il dono-mistero dei nostri giorni.

Può darsi che l’attacco debba anche qui qualcosa a Valeri. Ma subito la Toffanin prende con decisione la sua strada e ci dà la gioia di toccare quasi con mano la meraviglia del mondo che fiorisce e si allarga ai misteri del Cielo. Per tornare ora a quanto si è già potuto dire considerando il titolo del libro, leggiamo una breve poesia che si trova nella conclusiva sezione “Attese”, quella intitolata “Io petalo piuma fiore” (p. 112):

Dentro in antico coccio

schegge di pruno

farfalle di pesco

sogni di primavera

a ruvidi stecchi librati

senza più estive promesse.

 

Fuori nevica l’albero

piume d’uccello

e corolle stroncate

da vento crudele

che non lascia fiorire

attese raccolte

nel calore del cuore.

 

Io petalo piuma fiore

ora in turbine pazzo di dolore.

 

Dimmi, ti prego,

nel tepore segreto

si potrà preparare ancora

nido di nuova gioia?

La natura è qui osservata nel suo momento di distruzione, di morte. L’unità e l’armonia dello splendore primaverile con le sue “estive promesse” si sono ridotte ad essere soltanto immagine di una realtà distrutta, smembrata, fatta appunto di resti, di frammenti sparsi nei luoghi più casuali e incongrui (dentro a un coccio restano soltanto “schegge di pruno” e “farfalle di pesco”; dall’albero il vento fa scendere, come neve, soltanto le piume di un uccello scomparso). Tutto ciò è interiorizzato, divenendo figura dell’anima e concretandosi nel lamento di un distico a rima facile e baciata ( “Io petalo piuma fiore | ora in turbine pazzo di dolore”). Ma la poesia non finisce qui, non si spegne, non si esaurisce nella rassegnazione. Si apre, nella sua conclusione, in parole di attesa, di speranza. Tutto si risolve nell’intensità di una domanda che non sopprime l’angoscia, ma si affaccia anche su un orizzonte che lascia intravedere un ritorno o magari una forma di resurrezione. Eccoci di fronte a qualcosa che potrebbe essere una preghiera, perché la domanda è rivolta a un “tu” ed è implorante (“Dimmi, ti prego…”):

Di fronte ai beni perduti, di fronte al dolore che inevitabilmente accompagna lo scorrere inesorabile del tempo, la speranza è certamente messa a dura prova. Ma la natura ci fa continuamente conoscere una forma di rinascita. Di qui il pensiero della Toffanin può trarre dalle piume (che sembrano neve) di una vita distrutta (quella dell’uccellino) un grande motivo di speranza, la speranza di un “nido di nuova gioia”, di una nuova primavera

In ciò è ancora una volta riconoscibile il messaggio fondamentale e profondo che incessantemente e in forme diverse la Daniele Toffanin comunica da un decennio al suo lettore. In questo orizzonte di speranza sta la verità più intima di una voce poetica nuova dal timbro insieme familiare e grave, voce per noi di grande e rasserenante conforto.

http://www.literary.it/dati/literary/richter/la_poesia_di_maria_luisa_daniele.html

 

Opere e recensioni

E ci sono angeli: prefazioni di Mario Richter e Abate Norberto Villa

Nel corso del suo precedente itinerario poetico, Maria Luisa Daniele Toffanin ci ha fatto conoscere nella sua più viva specificità il mondo degli affetti familiari intimamente congiunto col paesaggio della città natale, della campagna, dei colli euganei e dei viaggi in terre di grande suggestione letteraria e classica come la Liguria e la Sicilia. Ci ha così addentrati, per accennare soltanto alle linee essenziali, in un mondo di colori e di suoni osservati e ascoltati nella loro impressionistica immediatezza, ma subito anche portati alla stabilità di valori immutabili, illuminati dall’eternità degli archetipi.

In questo nuovo libro siamo progressivamente accompagnati nel cuore stesso dell’evento più ricco di misteri e d’incantesimi che accende di speranza, sorprende e talvolta turba la nostra esperienza di vita, quello della nascita di un bimbo, dello “scrigno magico di primizie” (è uno dei primi versi d’apertura) che ci viene offerto come dono da scoprire, da capire nella sua sempre inaudita portata, nel messaggio che sempre richiede di essere nuovamente interpretato.

Nella prima delle tre arcate tematiche che strutturano la raccolta (Il volto dell’infanzia), la Toffanin prende le mosse dal primo vagito di un bambino che si affaccia al mondo. Di qui trae vita, attraverso i palpiti segreti che costituiscono uno dei cardini universali dell’umanità, tutta una realtà di inattesi stupori, di straordinarie visioni legate alle speranze e ai ricordi, alle gioie, fino a condurci al misterioso luogo “ove la tenerezza di Dio | depone sogni di luce | per albe nuove sulla terra” (Infanzia-cuna). Il canto è disteso, si avvale di accenti larghi per un ritmo che conforta e illumina.

Nella seconda (E ci sono angeli) la riflessione entra nel vivo di un dramma umano e sociale che il nostro tempo vuole sempre più diffuso e raccapricciante. Una ininterrotta strage degli innocenti provoca il grido accorato di chi pure amerebbe innalzare un gioioso “canto alla vita”. A momenti la riflessione si ferma a invocare, nella grande desolazione che l’affligge, il fraterno soccorso di un poeta come Zanzotto, di uno scrittore come Camon, entrambi veneti, ma cerca anche il sostegno della Morante, della Fallaci, per poi ricondurci a una figura emblematica come Anna Frank. Il canto quasi si spezza, assume tonalità gravi, cariche di dolorosa passione. Di fronte alle atrocità di cui sono vittime, ad esempio, i “meninos de rua”, la voce poetica s’infrange contro le frontiere della sua stessa capacità espressiva e quasi finisce con l’arrendersi, soffocata dallo sdegno e dal dolore: “… non regge parola | al peso di tale orrore”.

Nei ventitre componimenti dell’arcata conclusiva, l’evento concreto che, dopo la trepida attesa, giunge ad allietare nella sua viva presenza il cuore e i giorni di una mamma-nonna conferisce al canto le note che già conosciamo più consone all’originale voce lirica della Toffanin. Circostanze dall’apparenza comune e quasi scontata si sottraggono vittoriosamente alle parole convenzionali che da sempre le insidiano. Così, nel fiorire quotidiano di una nuova esistenza, attentamente osservata per un anno e oltre nelle sue più impercettibili manifestazioni (nelle mani, nella voce, nei gesti…), si fa strada in lievi ritmi, particolarmente felici, tutta una realtà densa di promesse. Ciò che più rende unica questa esperienza di poesia è l’incontro del particolare con l’universale, della gioia e della “cosmica malinconia” (Voce i tuoi occhi). Le emozioni non restano mai isolate, non si esauriscono chiudendosi nella loro autonomia: si caricano di significato fondendosi spontaneamente, con rari e sorprendenti effetti, alla natura che le circonda e le anima; si inverano nelle “musiche del cosmo” (Risveglio). [Mario Richter]

“…Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia”. E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva: “ Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama”. (Luca 2,12-14)

Gesù però disse: “ Lasciateli, non impedite che i bambini vengano a me; a chi è come loro, infatti, appartiene il regno dei cieli”. (Matteo 19,14)

Il buon combattimento della fede manifesta la massima intensità di confronto drammatico con Dio quando ogni fibra del nostro essere umano deve misurarsi nell’esercizio dell’adorazione, con lo sguardo avvolgente del cuore, per contemplare e scoprire il senso ineffabile e lo stupore creaturale della vita sul volto di un bambino, immagine del bambino Gesù, salvatore del mondo.

E’ l’esperienza che ho attraversato meditando la straordinaria e composita silloge E ci sono Angeli, dedicata da Maria Luisa Daniele Toffanin al mistero dell’infanzia riflesso sul volto di un bambino.

Affrontare questa somma prova che attinge il vertice della poesia e della spiritualità, implica il coraggio di scendere nell’abisso segreto del cuore per incontrare la presenza del Dio-con-noi nella circolarità dell’amore, come rapporto filiale di bambino in braccio a suo Padre-Madre nell’abbandono affettuoso dello Spirito.

Le due citazioni del Vangelo delineano il mistero della vita che il Verbo di Dio fatto uomo ha posto come stella splendente nel presepe del mondo, illuminando il senso ultimo di ogni esistenza e il compimento eterno di tutta la storia.

E’ bello evidenziare, in accordo puntuale con l’ orizzonte della rivelazione, alcuni versi della poesia“Il volto dell’infanzia”: | Profuma d’innocenza | e meraviglia | il volto d’ogni infanzia || profuma di poesia | epifania di bellezza || da eletti evocata | forza salvifica dell’umana gente.|| E della “Infanzia-cuna”: | Infanzia-cuna | ove la tenerezza di Dio | depone sogni di luce | per albe nuove sulla terra. || Mio canto alla vita.

Il mistero dell’infanzia illuminato dallo sguardo di un bambino – | profumo di Dio sulla terra. | germoglio di Dio sulla terra – è il Vangelo che ci schiude la via della pace, la verità dell’amore, il regno della vita, ponendosi come giudizio profetico di muto martirio nel mondo sconvolto dal vortice violento dei cataclismi della natura e dalla spirale distruttiva delle guerre di potere per il potere.

Piangi Cielo la tua buona novella sconfitta ||, |nuovi erodi uccidono l’innocenza: || Bambini nella e della guerra, Bambini della lebbra, Bambini di Bucarest, Bambini di Beslan, Meninhos da rua, Bambini della fame, Bambini mai nati, Bambini della malattia, Bambini offesi, Bambini usati…

Maria Luisa Daniele Toffanin dispiega la fitta trama dei sentimenti, intessuti da un cuore di donna - di mamma - di nonna - di poetessa - di mistica in un ampio florilegio di rose e di spine, per delineare e declinare il mistero dell’infanzia e della vita attraverso il purissimo e trasparente volto di un bambino, anche grazie agli occhi della nipotina | Benedetta Giulia, in una cascata di luci vibranti di gioia sovrastante un baratro di tenebre assurde di morte, in una grande vetrata di colori in preghiera, in un arazzo prezioso nei giochi d’immagini simboliche, in un mosaico di storie fissate da una compassione misericordiosa.

Ritrovare la speranza del futuro nella pienezza di senso della vita presente è la grande prova che dobbiamo affrontare, contemplando la terra, accolta nel grembo dell’universo creato, come un piccolo presepe ove al centro è posto un bambino, ogni bambino, tutti i bambini, nel bambino Gesù.

Ogni presepe | ha una storia d’amore | accesa dentro.

E’ il segreto del Regno di Dio, il sigillo della vita eternamente beata.

[Abate Norberto Villa]

 

Appunti di mare: prefazione di Stefano Valentini

Il nuovo libro di Maria Luisa Daniele Toffanin riunisce due differenti sillogi: l'una apparsa già nel 2000 e l'altra, pur composta nel medesimo periodo, a lungo rimasta inedita. E’ stata infatti pubblicata soltanto nel 2011 da Silvana Serafin in Appendice a Pensieri nomadi, l'importante repertorio antologico e critico dedicato all’insieme dell’opera dell’autrice padovana (Edizioni StudioLT2 di Venezia, nella collana “Nuove prospettive americane” diretta dalla stessa Serafin e da Daniela Ciani Forza). Entrambe le sillogi prendono spunto da un viaggio siciliano, il primo a Tindari e il secondo a Lampedusa, dove l'occasione vacanziera – intesa come allontanamento dalle incombenze quotidiane – diviene spunto irresistibile, e quasi ineludibile, per un percorso che delinea numerosi cammini interiori.

Tindari è lo scenario di un soggiorno estivo in uno dei luoghi più mitici non solo dell’isola ma dell’intera nazione, cantato con accenti dove perfettamente collimano lo stupore metafisico e l’emozione rapita dalla bellezza. Questa è una poesia dove la luce, il buio, gli elementi del paesaggio sono trasfigurati, sollecitando contemporaneamente – nell’autrice come nel lettore – il duplice imperio del sentimento e del pensiero: un felice connubio che suscitò l'attenzione di un grandissimo come Andrea Zanzotto, che sempre stimò la poesia dell'autrice e di cui lei, nel proprio approccio al paesaggio, può sicuramente dirsi epigona e continuatrice. “Muta il vento forme d’acqua / e le oscilla nel celeste / con più chiare corde d’aria. / Rumori inventa e colori / di trasparente luce / e odori da un magico profondo. // Marina è di giorno terso / anche nell’anima mia / smossa da una parola sua / da un gesto che mi suonò / dentro come un maroso”. Le immagini raggiungono una purezza classica, l’eterno si riverbera nell’istante, il tempo sospende la sua corsa. Risulta impossibile non tentare di vedere, con gli occhi della mente, quel che l’autrice sta evocando, ma è una visione nel quale gioca un ruolo primario l’intelligenza: il paesaggio, millenario, si fonde con la coscienza dell’osservatore, la bellezza si congela nella fissità immobile dell’attimo. Sembra di trovarsi sull’orlo d’una apocalisse mistica, incantesimo cosmico che libera dalla caducità e dalla schiavitù: ma questo non accade e, subito, riaffiora la materia sensibile, la serenità della quiete e della pace sconfitte e contraddette nella Storia. “Terra di fauni buoni e pacati armenti / di massi sapienti di ere e di genti / terra da millenni viva / terra di affanni e di fatiche immani // ... // Cieli ove Dio sogna nidi di gioia”. Una gioia, è opportuno esplicitarlo, che rappresenta una delle idee-tema fondanti nella poetica dell’autrice, prospettiva-proposta paradigmatica della sua visione del mondo e d’ogni possibile armonia.

Ricco e articolato anche il frutto del secondo viaggio, compiuto in un ambiente ancora più distante rispetto a Tindari: non propaggine della grande isola ma isola a propria volta, microcosmo che si fa paradigma del cosmo ancestrale. “Da traghetto a traghetto” racchiude i giorni intercorsi tra i due tragitti, appunto, dell'arrivo e della partenza. Ma se oggi il traghetto altro non è che un mezzo di trasporto, è difficile – almeno per chi ami la letteratura – liberarsi totalmente delle sue suggestioni mitiche e simboliche, essendo in più culture legato alla figura del “traghettatore” il transito tra realtà e dimensioni differenti, fisiche e ultraterrene. Un itinerario tra due sponde spalancate su un territorio in cui il proprio destino appare in certo modo sospeso, secondo una direzione obbligata da un porto ad un altro e dove mancano le distrazioni, le deviazioni e le soste altrimenti concesse in un cammino terrestre. Tra le due rive vi è un punto mediano in cui entrambe appaiono parimenti distanti e, intorno, unicamente l'acqua con la sua placida monotonia: la profondità, sotto la chiglia, è invisibile anche se, qualora prosciugata, apparirebbe terrificante quanto un orrido o un abisso.

Il viaggio, elemento oltremodo decisivo in tutta la bibliografia di Maria Luisa Daniele Toffanin, è sempre la stratificazione e la concrezione di note reali e simboli allegorici: tra il cielo e lo sprofondo c'è una terra e la nave, “trebbiatrice” che “macina il mare”, vi si dirige sicura. La traversata è notturna, ma è una notte di luce, come di molta luce sarà trapunto l'intero libro: la volta celeste appare, grazie ai riflessi marini, un “liquido falò” che già accosta, alla leggerezza della pausa di vacanza, una pensosità non angosciosa ma insistente, consapevole che “così si brucia il nostro breve tempo”. Tutto il libro è, diremmo, consacrato al mistero che pone a confronto la brevità del nostro destino e la vastità del cosmo, in un andirivieni di pensieri evocati “per dilatarli nell'immenso / allentarli nell'eterno”. Il tempo, osserva l'autrice, “frantuma il mare e insieme la vita”, ma in realtà il mare subito si ricompone e la nostra esistenza, invece, procede verso l'ineluttabile dispersione e conclusione. Trovare un significato la cui portata sia di antidoto alla caducità, così evidente e persino stridente se contrapposta alla maestà del creato, è dunque la prima aspirazione di chiunque non voglia sottrarsi a tale imperiosa evidenza.

La navigazione notturna è intrisa di pace, innocenza, immersione nell'infinito, ma è soprattutto antefatto e preludio alla luce del giorno: in essa l'autrice percepisce “il senso della gioia / d'essere insieme antichi e nuovi”, l'emozione di percepirsi come “guizzi di sereno nell'immenso” in grado di segnare di sé “il mistero del dopo”, dominando il tempo anziché risultarne vittime. Approdati, intensa è la meraviglia per la vita operosa e serena dell'isola, un “incantesimo d'acqua” che lega gli abitanti al loro suolo aspro e le cui terre di confine sembrano un rassegnato esilio. Qui “l'uomo ha parole e moti lenti”, qui “il tempo galleggia / s'allenta riposa sulla terra” e la frenesia, che domina le nostre giornate, non ha più alcuna ragion d'essere. Tutto è luce e cielo, tutto instilla uno stupore originario, memore dei primordi del genere umano e dello stesso pianeta. La creazione trovò nel mare il suo primo habitat, il nutrimento primordiale, e nella fusione con gli altri elementi – la terra, il fuoco, l'aria – il caos primigenio si è forgiato in bellezza ora scabra e vigorosa, ora lussureggiante e delicata. Così com'è appunto Lampedusa, arsa e accogliente e petrosa e fertile con i suoi “arpeggi di verde che il vento disegna”, incandescente e fresca, selvaggia e armoniosa. “Colloquio senza fine con l'immenso” sono le voci dei suoi innumerevoli uccelli, un colloquio che in fondo è l'isola stessa: prospettiva fisica e metafisica, orizzonte naturale e spirituale si fondono in un tutto inscindibile nel quale paesaggio e allegoria, sguardo e meditazione non possono scindersi. Ogni cosa diviene pentagramma, come fu per il “poeta musicante” Domenico Modugno. Le parole sono faville di memoria, gli approdi e gli attracchi si succedono tra “nostalgia di terraferma” e sirene che chiamano all'avventura, tra arrivi e partenze sul molo. Ma oggi ci sono anche, triste novità di anni più recenti, altri uomini che qui vengono sbarcati da “caronti e caini”, per trovarvi nuove speranze o solo un'anonima sepoltura, e così l'isola “gioiosa per la sua natura bambina” conosce anche l'altrui dolore, quello dei migranti disperati. Gli abitanti, per i quali le barche sono case e il mare stesso “è Casa dilatata nell'immenso”, vivono in un tempo dove risultano “uguali il prima il dopo”: come possiamo allora noi, turisti di passaggio, comprendere le loro radici d'acqua e di vento? Eppure c'è spazio, in questi incontri spesso muti, per incarnazioni o epifanie di “care sembianze / in strane convergenze vegetali animali / segni-orma di altri miei affetti svaniti / annuncio di amorosa presenza”. L'isola è ricca di piccoli miracoli e prodigi, in una fissità dove “l'anima del tempo” è “presente senza confini / mistero nel continuo fluire” e “incerti sempre” sono “l'andare e il venire”. L'osservazione si fa meditazione e conoscenza, immersi “nella verità sensitiva della natura” che dimostra e rende tangibile, una volta di più, “la premura” paterna e affettuosa del Creatore nei confronti nostri e d’ogni sua creatura. Il paesaggio e il pensiero, in questo cammino che prevede (ma non anela) un ritorno, sono viatici verso quell'eternità che qui sembra palesarsi ovunque.

L'attesa, vissuta e scandita secondo i ritmi e i cicli naturali, è tutt'altro rispetto alla smania e all’ansia dei nostri impegni quotidiani, cadenzati da un tempo artificiale con cui intessiamo ore dimentiche di qualsiasi genuinità. L'anima e il pensiero, sull’isola, non possono che interrogarsi, lasciando emergere quesiti che riguardano l'essenza medesima del nostro esistere. L'“ago del sentire”, la “giusta misura delle cose”, le “pasture di Cielo” possono indicare la via per quella sapienza che unica può permetterci di recuperare “risposte di luce” grazie anche alla poesia, “minuta crisalide” e “interiore rifugio” che alimenta, “nel silenzio-mistero delle cose”, germogli di sentimento e consapevolezza. Disponendo di un’adeguata bussola, sostituendo la meridiana del sole al dominio degli orologi e delle agende, si può navigare senza temere le tempeste, in una “avventura unica” nella quale “di noi sia traccia solo su rotte d'Amore”.

Vincere la paura del tempo significa anche riscoprire il valore profondo d’ogni singolo istante, per assaporarne la pienezza come antidoto alla sua apparente fugacità, Una lirica tra le più estese del libro contiene, nel suo titolo, quasi un programma: “La quiete del pensiero in una cala d'amore”. L'intreccio tra queste due dimensioni, quella conoscitiva e quella etico-affettiva, si specchia nella figura dell'”uomo dell'isola” e della sua pacata saggezza che non cerca risposte nella natura, ma semplicemente s'affida alle sue stagioni e manifestazioni. Per parte sua, così l'autrice può dire dell'amore: “Mi chiami se l'onda incalza / il vento disancora e disorienta la vela / tu, mio scoglio, con ferme radici / mi ormeggi per rotte di vita nuova”. Un amore che indaga il mistero, percorre le ere, profuma di “essenze-memorie” e si trasfonde in “terse sillabe dolcemente dischiuse”, per l'appunto quelle della poesia. La quale, lo diciamo per inciso, non trova alcuna limitazione nella novità formale del libro, ovvero nell’interpolazione tra i versi di brani dal carattere riflessivo ed esplicativo: un diario dell’anima, e del pensiero, le cui lucide annotazioni benissimo si affiancano a quella ricchezza inventiva e lessicale che caratterizza, non solo in questo libro, tutta la produzione lirica dell’autrice.

L'epilogo, il secondo traghetto, ha la luce del vespero, del crepuscolo “preziosa reliquia intima di eventi rari”. Sublimazione dell'immanenza nella trascendenza, trova nei “canti” e nei “voli” la propria epifania tangibile, basilare certezza che vince ogni dubbio: la musica della sera è quella del Creato, delicata e potente, immortale sin dall'“infanzia del mondo”. “Colma l'infinito e sazia il pensiero” lo spettacolo di quelle ali “sospese nel sospiro della sera”, in un andare dissimile da qualsiasi altro e nel quale si esprime “una coscienza arcana di appartenenza” che a tutto restituisce un senso, “una risposta ricomposta in un progetto di luce infinito”. Mentre si avvicina il momento della partenza, si compiono dunque la metamorfosi e la trasfigurazione: acqua e aria e fuoco e terra non sono più elementi esteriori, ma fondamenta interiori dell'essere e della poesia “sorgive all'anima per parole nuove”. Tutto si specchia nel mare non meno che nel ricordo, “per rileggere uguale il mondo / dall'alba della terra”. La risposta alla caducità è nella sua sostanziale apparenza, cosicché il viaggio – carico di suggestioni e sfumature – si chiude con la sua antitesi, la rivelazione del “canto perenne della vita”, dei valori eterni che non cambiano né transitano, ma perdurano immoti. Se esiste una risposta è qui, nell'eternità che si rivela, nell'amore che tutto governa, nella poesia che sillaba dopo sillaba esplora e condivide la verità. La piccola epopea “da traghetto a traghetto”, dall'una all'altra riva e ritorno, si conclude quindi senza alcun reale congedo, ma dolcemente sfumata nei viaggi, negli stupori, negli incontri, nei tempi che verranno: quali che siano e saranno, le bussole sono pronte. [Stefano Valentini]

 

Una Padova altra. La Libreria Draghi: osservatorio di cultura : prefazione di Giovanni Lugaresi

C’è ancora una “vecchia Padova”? Diciamo, non per i luoghi, ambienti, caratteristici scorci, che non scadano nel banale, nell’oleografico?

C’era, sicuramente, nei primi anni Settanta, così travagliati, così tormentati e drammatici, quando chi scrive arrivò nella “città del Santo”, come ancora veniva da tanti chiamata. Tempi duri, pericolosi, e non tien conto spiegarne il perché: è tutto nelle cronache, nella storia.

Eppure, in quei tempi, ugualmente, si avvertiva ancora vibrare le corde di uno stato d’animo, di un’atmosfera, di un sentimento, che non era retorico definire patavinitas. La Padova della storia e della tradizione, dei grandi maestri e dei dilettanti, che però eran personaggi colti, originali, estroversi. Basti pensare a un Agostino Contarello, volendo tralasciare il dotto ambiente accademico nel quale pure spiccavano personalità come un Enrico Opocher, un Marino Gentile, un Lucatello, un Flores d’Arcais, un Colombo, un Moschetti, un Ferro, un antichista come Franco Sartori, e via elencando, mentre fino a qualche decennio prima, era stata la volta dei Valgimigli, Ferrabino, Marchesi, Valeri, Fiocco, Traina, Branca...

Lasciamo stare, perché il rischio dei ricordi comporta si possa passare da un sentimento virile ad un sentimentalismo avvilente...

Diciamo piuttosto che in questo quadro di storia e di memorie, di presenze attive e di operosità intellettuale, la Libreria Draghi appariva ancora uno dei centri propulsivi di studio e di incontro, di ricerca e di dibattito. Una storia, anche quella della antica libreria della quale era diventata proprietaria la famiglia Randi, ricca di humus culturale e umano. Certo non vantava i fastigi del Bo e del Santo, non gli ottocenteschi retaggi patriottici e accademici, ma era pur sempre, quel che era stata: la Libreria Draghi, caspita!

Ardigò, Bonatelli, i Maestri dell’università, gli intellettuali, narratori, poeti come Marino Moretti, Giuseppe Longo, saggisti, di passaggio a Padova, lì non potevano non fare tappa. A conversare con Giuseppe Randi, il figlio Pietro, il tuttofare Adriano, se non con la Lea, invisibile... onnipresente nei meandri della libreria. Già, la Lea, morta centenaria pochi anni fa, dopo una vita dedicata alla Draghi-Randi, una vita trascorsa nella Draghi-Randi.

Che è scomparsa, come ognun sa. Infertole un colpo durissimo nel 2005, non è passata a miglior vita pochi mesi fa. Essendo incominciata a morire, allora, aggiungiamo soltanto che è passata... e basta. Parce sepulto.

E se prima aveva chiuso i battenti la storica sede, con la storica insegna su via Cavour, per ritirarsi (una sorta di “ridotta”) negli spazi di Galleria Santa Lucia, preludio ad una definitiva chiusura, adesso è rimasto soltanto lui.

Sì, Pietro Randi, 87 anni, nato in libreria, nella cui temperie era cresciuto, respirando di quell’aria che sapeva di storia e di memorie, di parole e di carta stampata, di nuvole di fumo di pipa (ah, quando c’era Manara!), e di voci altisonanti, quelle inconfondibili di Giuseppe Toffanin storico dell’Umanesimo e del filosofo Marino Gentile.

Pietro Randi si è ritirato all’ultimo piano dell’edificio attaccato alla “fu Libreria Draghi” portando seco i “penati”: ritratti di maestri, antiche poltrone, antichi tavolini, scrivanie che hanno una storia. Che potrebbero, potendo parlare, raccontare varie cose: di uomini e di eventi.

Pietro trascorre lunghe ore a vedere, consultare, riordinare, testi e manoscritti, libri e lettere, che un giorno andranno (immaginiamo) ad arricchire gli spazi del Bo.

Ma intanto Pietro è una memoria storica vivente e questo tipo di personalità debbono essere interrogate, con loro bisogno interloquire, perché hanno molto da raccontare, da tramandare. Retaggi che non sono materiali, potenza, ricchezza, bensì preziosi pezzi di intelligenza, conoscenza, di memoria, appunto.

Non sappiamo se Pietro Randi lascerà, il giorno in cui il buon Dio lo chiamerà nel mondo dei più, un diario, un memoriale. Nel frattempo, si è lasciato intervistare. Lo ha convinto in tal senso una poetessa padovana da lui stimata, e che non si limita a pubblicar versi, ma è immersa nella vita civile, sociale, di questa vecchia Padova: Maria Luisa Daniele Toffanin.

Fosse stato vivo Giuseppe Toffanin jr., questo testo lo avremmo letto, magari in più puntate su “Padova e la sua provincia”, rivista mensile legata anch’essa alla sensibilità di un benemerito vecchio padovano, il commendator Leonildo Mainardi. Ma dove è la benemerita rivista d’antan? Nelle biblioteche, raccolta per annate.

Maria Luisa ha pensato allora a questa plaquette, elegante, come lei, e in sintonia peraltro con l’eleganza (di modi, di stile) di una famiglia che con Pietro, librariamente parlando, finirà, la famiglia Randi. [Giovanni Lugaresi]

 

L’attesa perlata di stelle e rugiada: prefazione di Nazario Pardini

La poesia della Toffanin è amore, è slancio verso l’alto, è vita, ed è anche memoria. Memoria buona, sana, verticale, quella che attinge dal profondo dell’anima per pescare attimi, ore, giorni e farli attuali. E’ lì, in quella alcòva che spesso ci si rifugia per svincolarci dalle sottrazioni del presente. Ma Luisa, in questa plaquette dedicata al nuovo pargoletto venuto a spruzzare d’azzurro ogni angolo del suo esistere – lei nonna -, offre tutta se stessa, tutto il suo sentire, ogni effluvio del suo essere che dalla terra sa elevarsi al cielo. Ed  è qui la sua poesia. E’ in questi abbrivi emotivi che sanno trovare le giuste corrispondenze in articolati linguistici sapidi di significanti disvelatori, di sostanza e potenzialità creativa, fonica e cromatica. Tutto si fa musica. Tutto. Ogni nota contribuisce a rendere musicalmente avvincente questa romanza. La direi sinfonia wagneriana che ti porta ad associare strappi musicali a panorami limpidi di mare e di spazi; di chiari incisi  da stormi in cerca di slarghi. Ed anche la notte brilla di luce, non esiste buio, non c’è posto per l’ombra in questo epifanico grido di pace e di gioia. Persino la luna offre tutta se stessa per irradiare i suoi piccoli steli sul prossimo evento:

 

Brilla l’antica luna

immacolata come la prima alba

sulla pineta ormai violata.

(…)

Lontana t’avvolge una romanza

a onde flautate soffusa

da un pianoforte poggiato sopra il mare… (NOTTURNO).

 

Il mondo intero dona ogni parte di sé all’armonia di questa romanza: romanza da intermezzo pucciniano che si articola in sottofondo per tutto il dipanarsi del poieo. Ed ecco che ritroviamo a pieno l’artista, la sua poetica, la sua vis creativa, le sue vaghezze semantiche, ma soprattutto il suo sviscerato amore per la natura. Più volte nei miei interventi sulla sua poesia ho avuto occasione di mettere in evidenza questa caratteristica  del suo percorso artistico. E con ciò non voglio dire che la poetessa sperda tutta se stessa in cuore alla natura, o che si annulli fra le braccia di Pan. Anzi, al contrario. Lei fa volare l’anima fra albe nascenti, fra pinete violate, fra grilli e sistri, fra tramonti , albicocche fragole ciliegie. In modo che, al suo rincasare, zeppa di suoni e colori, di stupefazioni e cospirazioni, possa concretizzarsi, attivamente, in simboli vòlti a grandi espansioni. Il suo linguaggio è affidato ad un panismo di cospicua valenza ispirativa.

Ed ogni angolo della sua terra si dispone, obbediente e mansueto, a ritrattare i frammenti del suo sentire.

 

Oh vita cornucopia amata

di sogni-attese-promesse

albicocche fragole ciliegie

Il dono alla Casa dei figli! (CORO).

 

Iperboli e invenzioni allusive, ossimorici slanci e sinestetici azzardi la portano a rapire stelle e lune per vincere l’oscuro e dare luce, vita, amore:

… Ma io innamorata del firmamento

e dei suoi sfavillanti abitanti

per te rapirò alla notte

una luna azzurra immensa

luminosa faccia piena

disegnata sopra i colli.

 

Illuminerà la tua stanza sempre

Fra le ombre del silenzio (PER TE RAPIRO’ LA LUNA).

Quanta luce, quanta gloria, quanta armonia a vincere e scongiurare le aporie della vita. Tutto ciò che poteva essere accennato, o trattato con una certa delicatezza, o soffuso in parte, qui esplode con violenza emotiva. La plurivocità del sentimento erotico si concentra in un’unica direzione con tale spontaneità da lasciare allibiti. Tutto si fa celestiale, tutto gioia, in uno stato di grazia e beatitudine:

… Beato stato di grazia

oltre il confino dei giorni

quell’attimo d’Eterno


nella casa aperta all’infinito

ai colori delle begonie accesi

nel profumo della rosa (BEATO STATO DI GRAZIA).

Rugiade, rose, begonie, primavere, rondini, fiori, fiori, fiori, tramonti vermigli, ed albe nascenti, e sere accarezzate da lumi sottili, fatevi presenti, potenziate il vostro coro, avvolgete tutta me stessa e offritemi a la Voce che:

ci parla

del dono-bene posseduto.

Questo alla fine sembra dirci Maria Luisa. E ce lo fa capire con cospicua generosità emotiva ed efficace resa poetica. [Nazario Pardini]

 

Segreti casentini ed oltre a primavera: prefazione di Pierangiolo Fabrini

La silloge di Maria Luisa Daniele Toffanin trae ispirazione dal paesaggio del Casentino, una vallata dell’aretino in cui scor­re la prima parte del fiume Arno. Il Casentino è una terra anti­ca dal fascino inconfondibile, ancor oggi molto bella con i suoi borghi medievali, quelli più grandi e noti del fondovalle come Poppi, Bibbiena, Pratovecchio, Stia, e quelli montani, piccoli e quasi sconosciuti, con le sue suggestive pievi romaniche, con i suoi luoghi altamente spirituali immersi nelle splendide foreste, come Camaldoli e La Verna, e con la sua natura incontaminata.

Il Casentino ha certamente una storia molto antica e per certi aspetti misteriosa: era abitato sin dalla più lontana preistoria e nel periodo etrusco vi sorsero molti siti e importanti luoghi di culto quali il “Lago degli idoli” sul monte Falterona, in cui sono state recuperate nel tempo migliaia di statuette votive e suppellettili di culto; la pieve di Socana fu edificata sulle rovine di un tempio romano a sua volta edificato sulle rovine di un tempio etrusco, del quale si conserva un’ara del V sec. di grandi dimensioni. Nel Medioevo ebbe particolare risalto per le vicende legate al centro Italia e all’espansione fiorentina; e forse il fatto storico e lettera­rio che l’ha reso più famoso è la battaglia di Campaldino, che si combatté fra i Guelfi, prevalentemente fiorentini, e i Ghibellini, prevalentemente aretini, l’11 giugno 1289. La vittoria dei Guel­fi, dovuta soprattutto al ruolo di Corso Donati e alla decisione, da parte dei Guelfi, di muovere contro Arezzo non passando per il Valdarno ma valicando il passo in prossimità dell’attuale Consuma per procedere verso Arezzo passando dal Casentino, comportò la progressiva egemonia di Firenze sulla Toscana. La tradizione popolare avvolse questi eventi di un alone romantico e leggendario, alimentando fantasie di miti e di inquieti fantasmi. Dante Alighieri, che – secondo gli antichi biografi – avrebbe par­tecipato alla battaglia militando fra i feditori di Vieri dei Cerchi, dette il suo contributo riportando parte della sua esperienza nel­la Divina Commedia.

La silloge di Maria Luisa Daniele Toffanin si compone di di­ciassette liriche dense e pregnanti, eppure leggere e quasi eva­nescenti: in pochi tratti sa disegnare un quadro che si allarga ben oltre i confini del paesaggio, sostenuto dalla leggerezza dei colori, dei suoni, delle fragranze, comunicati e suggeriti con un lessico sempre suggestivo e allusivo e con una ricchezza di ca­pacità espressiva originale ed efficace; il linguaggio dispone di una straordinaria varietà di figure e di traslati (quali metafore, sinestesie, metonimie, ossimori, anastrofi, assonanze, anafore) che conferiscono immediatezza comunicativa ai suoi versi di raf­finata fattura, senza mai indulgere in ornamenti leziosi e super­flui. I versi si snodano con un fluire ritmico armonioso, che crea melodiche sonorità e che accompagna e commenta lo sgorgare delle immagini che emanano con naturalezza dalla sua tavoloz­za. L’autrice ci guida in questo paesaggio naturale dal fascino inconfondibile immerso in un’atmosfera di mistero e di magia, che ci parla attraverso un sequenza ininterrotta di luci e ombre, di colori, di armonie, di profumi, che, spesso mescolandosi e in­tersecandosi tra loro, penetrano nell’anima invadendola tutta.

Le liriche che compongono la silloge rappresentano quasi le tappe di un itinerario interiore, che percorriamo accompagnati dalla poetessa nel procedere del cammino attraverso la vallata.

La metafora del viaggio attraverso il Casentino disegna un percorso contrassegnato da quadri situazionali in cui si crea una sorta di progressiva trasformazione a seguito di una interazione misteriosa tra la poetessa e la natura, che diviene una simbiosi in continua evoluzione.

L’autrice inizia ponendo il quesito (la prima poesia è intitola­ta, appunto, Quesito), da cui ha origine la ricerca che da sempre assorbe tutte le sue energie, per concludersi, alfine, con la Rispo­sta (il titolo dell’ultima lirica) a cui l’ha condotta il suo incessante approfondimento.

Se percorriamo le tappe di questo cammino che si snoda at­traverso l’ambiente naturale, liberandosi progressivamente delle scorie materiali per attingere ad una dimensione eterea e rarefat­ta che è il preludio del divino, incontriamo tutti gli elementi che secondo l’autrice possono condurre alle risposte che andiamo cercando, e in particolare quella che è la chiave di tutto, cioè «il mistero del vivere».

Secondo la Daniele Toffanin è possibile arrivare a dare risposte agli interrogativi che ci tormentano solo attraverso un processo di progressivo accordo con la natura, nella quale sono celati tutti i segreti e i misteri su cui tentiamo di far luce; ma occorre saperci avvicinare alla natura con gli occhi e il cuore che hanno l’inno­cenza dei bambini ed essere in grado di entrare in sintonia col creato con amore e con la fiducia che ci si possa accostare «al suo Principio ispiratore»: «Armonia-sinfonia / angelico profumo /che consola sempre dentro / s’offre all’uomo in comunione / per un divino progetto / cromatico d’amore / che più s’accosta / al suo Principio ispiratore / più di Lui s’illumina / e arde a nuove rivelazioni».

Nella prima lirica le «ore giorni in afasia di voli», le «sinistre voci-immagini / afrore di caduta interiore», la «corda lanciata dal cielo» che viene descritta come «un albero gemmato di purezza», «una foresta di luce illibata / irradiata dall’alto» ci introducono subito nel cosmo dell’autrice, tutto foggiato dalla leggerezza di colori, suoni, profumi. Solo attraverso questo universo impal­pabile e quasi evanescente – eppure così concreto – è possibile attingere al vero che sta «oltre», al significato del «mistero del vivere», rintracciabile solo in una dimensione spirituale, non infi­ciata dalla corporeità quotidiana.

È infatti una realtà che si può cogliere e indagare esclusiva­mente abbandonando la corposità del «mortale scivolo» in cui ci troviamo immersi. Di questo «altro» mondo percepiamo la reale esistenza, ma solo entrando in contatto e in sintonia con la natura incontaminata possiamo avvicinarvisi e tentare di percepirlo in modo adeguato; per l’uomo è indispensabile cercare di attingere a questa «altra» dimensione perché è lì che possiamo trovare la risposta a tutti i «quesiti», è lì che è custodita la chiave di lettura di tutto l’universo, che non si lascia cogliere se non attraverso un processo costante di «sublimazione» che richiede tutte le nostre risorse interiori.

Anzitutto Le trame di armonia: la natura crea i «leggiadri accordi / a primi tepori / dell’ultimo inverno» e con la «luce esplosa dalla / pietra-miracolo […] accende lo spirito / a nuove visioni». Sono gli accordi di suono e di immagini che formano un quadro armonioso e che fanno percepire la «Presenza altra» che è la sola in grado di creare il «globale accordo», in cui l’ani­ma può sostare a «risanarvi». Nelle liriche Fragile magia e Mu­sica di foresta la «lieve primavera» crea un «Affresco rosato / smemorato in foschie / di nuvole già basse / affresco pompeiano / di rosso raro acceso / in spigoli di sole». Il gioco di colori e di suoni che si intrecciano compongono un quadro di magico stupore («intima musica / stemperata in acquerello / d’arboree tinte») che riverbera il «divenire eterno» e permette a noi mor­tali, temporaneamente immersi nelle ambasce della vita terrena, di assaporare «rivoli di gioia», di presagire il «fiore della vita». Il paesaggio naturale è un immenso tesoro che custodisce i se­greti del passato e le speranze del futuro, e immergendosi nella natura e nel paesaggio vissuto si possono ritrovare le tracce e le memorie del passato, che rappresentano l’unico elemento su cui possiamo contare per fornire una base solida alle speranze. Ne risulta un processo di comunione, di identificazione, di un intrecciarsi originale e suggestivo di rapporti e connessioni, sì che la poetessa finisce per immedesimarsi e immedesimarci nel paesaggio naturale.

Nella lirica E altri stupori altre suggestioni emanano dalle se­grete «memorie» che il paesaggio nasconde in «festa di vita» (me­scolate «tra fiori di morte»), di cui siamo felici di far parte, e che si manifestano misteriosamente e magicamente attraverso «arazzi festosi / di teneri verdi / d’acqua, di gemme / di cieli riflessi / nell’erba stellata / di primule gialle / sorprese da raggi / furtivi nel fitto / di faggi eleganti». In Antica voce di flauto l’«Infinita […] armonia d’azzurro-verde / sublime intreccio di coltivi» sem­bra realizzare concretamente il compenetrarsi di «Divino-umano insieme»: «voce di pastori» che «si nutre di flauti» accompagna il manifestarsi del «prodigio atteso / da un arcano profondo / rinato in trame di vita / magiche grafie / melodiose note / ol­tre l’umano». E la lirica successiva, Magiche grafie e umane note, continua e completa la percezione degli indissolubili legami: la «setosa sinfonia di verdi», le «danze sospese nel vento» e i giochi di «ombra e sole / su lucidi velluti d’erba» risvegliano le «anime boschive» che si mescolano alle umane presenze evocate da rapi­di accenni allusivi (la «pieve di grigia radice», il «tocco di antica campana», il «richiamo insieme al desco», lo smarrimento «fra vuoti miti / qui gradito nella pace dei riti»).

Di fronte allo stupore del rinascere della vita «papavero di fuo­co / d’improvviso sorto / da un tronco moro» ecco che «il cuore s’allarga ancora a speranza». Ed ancora i fugaci indizi di tracce umane fanno sgorgare nell’ottava lirica (Al passo della Consuma) ricordi e memorie di eventi umani che arricchiscono il panorama naturale, facendo percepire quanto esso sia compenetrato e im­pregnato dell’umano sino a farne un tutt’uno inscindibile «sfran­giato in fantasie fuggenti / nei cieli frizzanti d’aprile», creando magici «arazzi», termine incipitario qui ripreso quattro volte in un crescendo di colori che conducono alla dimensione ultrater­rena: «arazzi-reliquie d’autunno dorate / arazzi rinati a piccolo punto / di rosso-viola più nuovi più rari / arazzi di lucide corde tese / in estrema tensione di linfa / arazzi-vita oltre la morte /prodigi del ciclo perenne / per noi reiterato dal tempo garante». Il nostro sguardo è così condotto attraverso gli «attimi d’eterno offerti / a noi solo minute ali di passo / verso nidi di Luce attesi», verso gli «specchi di cielo / – oltre il fondale – / a noi non visibile ancora». Ed oltre la Consuma – nella lirica Visione oltre – si apre uno scenario «d’irreali celestri / eco di sereno / lontano. / Visio­ne di un Oltre / sempre intuito / indagato su ali insicure / qui alfine visione» che accende «speranza infinita».

Nella lirica Terra di nuvole viene ripreso il tema delle memo­rie che il paesaggio rievoca attraverso le «grigie / romaniche pie­vi», le «dimore ruvide / intorno al feudale castello / antracite incombente / […] / E lancette dalla superba torre / immobili /nel presente infinito». Il tutto è avvolto fra «petali in candide nuvole», fra «prati-molle maggese / schiumati d’acqua d’Arno» che ammorbidiscono «le sconfitte della storia / opprimenti l’u­mana gente» e creano un alone di magia che accende «mistico stupore». Subito dopo, in Tondo senza tempo, la poetessa descrive una «visione lontana»: greggi candide e nere, puledri lucenti dal dorso bruno immobili al pascolo «nel colmo tepore / nell’ora che da fragile cavo / canne suonano al vento / brusio d’arcano stu­pore». Ma il quadro naturale immerso in un «tondo d’azzurro» è presentato come un dipinto nella sua immobile fissità «senza tempo», di fronte al quale si resta in estatica contemplazione.

Nella poesia Per ritrovarci bambini la primavera che sprigio­na i suoi colori più brillanti e i suoi frutti gustosi rimanda alla fanciullezza spensierata, alla «gioia-innocenza / della verità del creato / garante delle oneste stagioni […] Preludio di Cielo», di un «Oltre» in cui fiorisce la speranza di ritrovarci con la gioiosa innocenza di bambini e dove la beatitudine consiste nel ritrovarci «nella verità della Luce». E quale possa essere questa beatitudine di bambini viene suggerito nella lirica successiva, Beatitudine. Po­tersi muovere leggeri e impalpabili nell’aria intrecciando danze, «smagati» e «stupiti», raccogliendo «panieri / per rossi smalti splendenti»: un «beato stato di grazia» che prelude a quella che potrà essere la vera beatitudine in quell’Oltre ricercato e brama­to, raggiungibile solo con cuore puro di fanciullo.

Nella lirica Aprile tutto in fiore e nella successiva Primavera viene descritto l’esplodere della primavera in tutta la sua stupe­facente bellezza: «Armonia-sinfonia / angelico profumo / che consola sempre dentro / s’offre all’uomo in comunione / per un divino progetto / cromatico d’amore». È un’«armonia di pastelli», un «arpeggio a colori vari» che ci fa respirare «il divino mi­stero», ci accosta al «Principio ispiratore»: è questo un anticipo della risposta esistenziale che andiamo ricercando ed è allo stesso tempo la certezza che questo è quello che certamente ci aspetta, se, come «la terra s’abbandona al sole», l’uomo si abbandona «al suo Principio ispiratore».

Intuizione e l’ultima Risposta avviano l’itinerario alla conclu­sione: tutto il cammino «Fra vaghezze infinite / nel procedere eterno del creato / di segno in segno / di miracolo in miracolo / ad alta quota interiore / palpita trascendenza – in aliti di luce –» e conduce coerentemente e inevitabilmente alla «certezza del Dove si compia / il senso del nostro esserci». La risposta ai «rabdo­manti del Vero» appare luminosamente evidente: in quella «in­cantata […] natura» e in quelle tracce dell’«antica opera umana» ispirata dalla «premura» divina; è qui che si trova l’indizio certo dell’Oltre atteso e ricercato con i suoi «sconfinati […] sipari del mistero», di quella «Presenza paterna-materna» ovunque a lungo bramata eppure così vicina: «E non sento non vedo / che mi sei così vicina / mi cammini sempre a lato / nell’ombra-luce del tra­monto / Tu con la tua-nostra Croce / stretta fra le braccia». [Pierangiolo Fabrini]

 

Sottovoce a te madre: prefazione di Nazario Pardini

Ora che si rifà Natale e l’attesa

facile svapora profumo d’infanzia

nostalgia per la casa-cuna tuttinsieme

come in presepe, sento madre cara

urgenza di succhiare con te il miele

di quel momento quasi energia vitale

e in sussurri-intimi bisbigli ridirti

– ché tutto in Lui già vedi

in un eterno celeste presente –

la mia storia qui sulla terra ed altro

svelando verità ove le nostre anime

nude, si specchiano

simili gocce d’uguale sorgente. (Lettera di Natale).

Questo l’inizio della plaquette che già tiene in sé un climax ascensionale, un abbraccio alla terra e alle sue storie, per trasferirle là dove Lui tutto contiene «in un eterno celeste presente». Come a contraddire il potere della morte, come a sconfiggere la tracotanza del tempo che tutto travolge e tutto fagocita in un inarrestabile ritmo disumano:

Il giorno spegne per sempre una vita.

Abi resta torrente d’inverno alla prima gelata

che cruda improvvisa lo stringe e chiude.

Ma grida con giovane cuore

dei mille segreti rimasti

accanto a parole-carezze lasciate cadere.

Fermati un solo momento ancora

anima scarlatta

nelle ombre cupe della sera…

Un Lui salvatore e riparatore delle sottrazioni a cui il terreno ci sottopone; quelle sottrazioni che ci procurano dolori indicibili dacché tali mancanze vorremmo che non arrivassero mai, fino al punto di pensarle e di vederle eterne le persone che amiamo:

hai tali e tante età

da non avere età.

Mater mea

senza tempo

ami la vita

Ma qui il dolore stesso si fa quietudine sotto lo sguardo di una eternità che ferma il presente abitato da anime «simili gocce d’uguale sorgente». Sta qui la grandezza di questa silloge, in una simbiotica fusione di cielo e terra, di Thanatos e Eros, di vita e morte; di quiete e dolore in questa dualità fra luce ed ombra, in questa scalata verso la luminosità del Cielo che, come preghiera, annulla ogni spigolo dell’umano vivere; del terreno esserci; una fusione di contrapposizioni, di polemos tra gli opposti, che, in questi versi, genera, con euritmica musicalità, il focus della vita, il cuore del vivere, sbocciando tra i fiori del reale per decollare verso

porti di smisurati orizzonti; per convertire in gioia le lacrime:

E il tuo albicocco in umana forma

vive rivive anche in una favola

in volo verso il divino schermo

ché tu la legga nei cenacoli del cielo

come meraviglia rifiorita sulla terra…

E il tutto ex abundantia cordis; sì, da una straripante generosità emotiva, dato che anche il dolore, una volta riposato in animo, e illuminato da una urgente spiritualità, si trasforma in dolce immagine da trasferire in poesia; poesia di catarsi, di rugiadosi petali, di armonie:

Così allora che tu ti spegnesti

catarsi e armonia mi infuse il verso

e mi colmò il vuoto dell’assenza

di rugiadosi petali.

Con la parola ti rievocavo

e mi apparivi viva accanto

in queste pagine che Sottovoce ti allego

da leggere in comunione con altri

che abitano con te il cielo…

Una poesia che dice di momenti di grande resa lirica, di effettiva efficacia poematica, in cui la parola si scorcia o si allunga, si smorza o si rattiene, per seguire l’impeto di un fiume che romperebbe gli argini se non fosse sorretto da un robusto stilema; da una cifra lessico-fonica che va, anche, oltre la sintassi, oltre la tradizionale grammatica con accorgimenti figurativi, allusivi, iperbolici, e unità sintagmatiche che si fanno particolarità linguistica di notevole valenza visiva nel campo semantico e significante della Nostra. E anche se la Toffanin riesce ad allungare sguardi verso eteree ed edeniche soglie di fede, lo fa sempre partendo

dalla coscienza della ristrettezza del vivere; dalla visionaria verità di una vita bruciata:

Ormai il vero scopre se stesso

lo sento, mi urla impietoso che

la vita intera è infine bruciata.

Resta solo un fascio minuto

d’esili raggi di sole.

E si leva un vento mesto

un lieve piangere di foglie

un’ala grigia di presagio.

Ed è la natura a farsi interprete prima nelle vicende della Nostra. Una natura che prende per mano l’Autrice e l’accompagna in un autunno che tanto sa di redde rationem, di ultimazione, dove «Struggente è il vano nutrirti/ d’amare illusioni, vuoto/ scavato dentro da non saziare più». Una natura che con i suoi sprazzi

cromatici concretizza gli slanci emotivi della Toffanin.

Il memoriale diviene, così, alcova rigenerante, luogo di rinascita; terriccio fertile per canti che travalicano il contingente per azzardare sguardi oltre la caducità dell’ora. Ed è in questa isola felice che la Nostra riposa; è qui che riabbraccia volti fattisi diafani, puri, nudi e innocenti; ridarli a nuova vita, serena ed immortale, è la prima esigenza in questo afflato di rigenerazione plurale e totale:

Aria di passato spira

nella casa ritrovata

e agita un pulviscolo d’emozioni.

Fra pareti di sole

sfumati dal tempo

si muovono volti.

Quasi cascate irruenti

esplodono voci risate pianti

fra odori buoni di vita.

Intorno aleggiano trepidi

Madre i nostri giovani sogni…

Un poema alla madre i cui versi si intersecano in agili e apodittici costrutti, per agguantare gli abbrivi emotivi che ne fanno una voce di ontologica plurivocità. Iniziare dalla citazione testuale significa andare a fondo da subito nello stile e nei contenuti della Toffanin. Un poièin estremamente suggestivo e carico di

motivazioni umane, di affondi naturistici contaminanti per cromie e simbologia esistenziale. Un poema il cui titolo – Sottovoce a te madre – fa da prodromico ingresso ad una storia verticale e orizzontale per la sua polivalenza. La poetessa fa della realtà fenomenica un trampolino di lancio verso un cielo carico d’azzurro.

Ogni cosa dà il suo contributo a questo viaggio epigrammatico dove tempo, memoria, affetti, saudade e nostos si miscelano fra loro cercando nelle oscillazioni metriche le varie stazioni degli stati emozionali.

Uno spartito di polisemica significanza dove ogni elemento che lo compone fa parte di un tutto organico e circolare: vita morte vita. Sì, proprio la vita! La sua irripetibile casualità, la sua unicità e bellezza dominano in questa vicenda umana illuminata da squarci di cielo, voci di mare, gridi d’amore:

[…]

Passero triste

nelle ore lunghe di grigi tramonti.

Aquila audace

felice a confinare nuovi orizzonti.

Così rimarrai negli occhi del cuore.

[Nazario Pardini]

 

Florilegi femminili controvento: prefazione di Giuseppe Manitta

Florilegi femminili controvento, opera giunta finalista al premio ‘Pietro Carrera’, è il titolo della silloge di Maria Luisa Daniele Toffanin, che sin da una prima considerazione deduttiva presuppone due concetti di estrema importanza da vagliare in una visione critica: i ‘florilegi femminili’, al plurale e conseguentemente ‘passi scelti’ di un discorso legato alla donna nelle sue varie sfaccettature, nonché l’aggettivo controvento, a significazione di un contrasto ben determinato, che dovrebbe emergere all’interno del corpus oppure, più in generale, da una visione dialettica tra i florilegi autoriali e il giudizio collettivo. Come si accennava, questa valutazione preliminare nasce da un procedimento deduttivo che va confermato, induttivamente, dalla lettura. Questa si divincola nelle sezioni in cui è articolata l’opera: Dediche, Piccole donne, Donne di casa mia, Incontri, Florilegi d’amore e memoria.

Il dato ‘femmineo’ viene direttamente richiamato, com’è evidente, nei titoli di due sezioni, a conferma della centralità del tema che, a sua volta, trova una più salda constatazione se applichiamo

una lettura occorrenziale del lemma ‘donna’, con ben 50 occorrenze, cui si aggiungono dei dati ulteriormente interessanti: 147 occorrenze dell’aggettivo ‘femminile’ e 36 di ‘madre’. Un tale approccio, quello concordanziale intendo, se all’apparenza potrebbe mostrare una certa aridità critica, al contempo, massimamente se ci si occupa della produzione di un’autrice contemporanea, permette di individuare i termini guida di un determinato lessico poetico, conducendo (naturalmente e inevitabilmente) alla linea sotterranea delle tematiche proprie della nostra opera. Essa intende, per mutuare la lirica incipitaria della silloge, non solo mostrare la valigia esteriore dell’uomo, che sia di corpo o di argilla, ma soprattutto scorgere i segreti dello spirito, addentrandosi nel viaggio infinito dell’anima.

La prima sezione è costituita da Dediche che sono rivolte a donne conosciute o ammirate, le quali tramite la poesia si rendono percepibili, ma al contempo si fornisce una lettura ispirata che si collega ad una meditazione sul valore generale dell’esistenza. Si perpetua, dunque, il concetto dell’immortalità dell’anima e, per via indiretta, della parola che ad essa s’ispira: «Tu sai / non muore l’uomo / se fra le mani lascia desideri / per puntare ancora gli occhi alle stelle. / Muta solo forma» (Un migrar d’amore, a Nerina). La silloge si segnala per il suo valore conativo, ovvero per la sua capacità ‘vocale’, propria dello stile epistolare, sia esso ispirato alle epistulae della latinità oppure ai rari casi della poesia contemporanea. La contingenza della destinataria diventa l’occasione per oltrepassare il dato reale, commemorativo o semplicemente memoriale che sia, per approdare al ‘senso ultimo’, inteso come capacità di lettura universale. Questa peculiarità poetica si amplifica o contrae a seconda dei testi sino ad una apertura massima che riscontriamo in Penelope altra, dedicata universalmente alla donna, in cui le contingenze a fatti e personaggi ben specifici, ed individuabili dal lettore, si fanno più sfumate rispetto ad altri componimenti. L’esempio specifico citato fornisce l’occasione per sottolineare un ulteriore interesse della poesia di Maria Luisa Daniele Toffanin: l’impegno di una lettura sociale che si fa meditazione sulla natura dell’uomo. Nella poesia testé citata, difatti, la lettura antropologica della violenza subita da Penelope da parte dei Proci viene attualizzata, in modo speculare direi, alla violenza contemporanea. Ma non si tratta, come banalmente potrebbe apparire, di un semplice parallelismo retorico, ma della constatazione di una ‘mala natura’ che è insita nell’essere. Il rapporto tra la donna-Toffanin e le sue donne, più o meno intime, ricordate nelle varie parti, diventa osmotico, compartecipe di una stessa essenza e di una medesima finalità.

S’instaura, come viene riconfermato dalla seconda sezione dal titolo Piccole donne, una intimità esistenziale che mira alla libertà, al recupero dei valori, alla deliberazione di una ‘rinascita’, che significa progressione in positivo di una realtà vissuta. Il concetto della ‘rinascenza’ diventa importante connettivo tra i ricordi e il tempo attuale, di conseguenza tra quanto è accaduto, o si è visto, e quanto si può percepire. Il florilegio femminile diviene, così, l’occasione di una primavera nuova, di un oltrepassare il tempo cotidianus per concluderlo in una congiunzione tra tempi: «Andare oltre la soglia / del quotidiano giogo / in magico rito fanciullo // è scoprire uno stato di grazia / è sentirsi trasparenti a se stesse / in dimensione oltre l’umano» (In magico rito fanciullo); «E l’uomo / al calore solare / si sente rinato: / riprende a creare, / inventare la vita» (Giallo di primavera).

L’intimità procede secondo climax fino alla terza sezione: Donne di casa mia. In questo caso il recupero memoriale e la rinascenza che prima abbiamo notato assumono un legame ancora più corporeo. L’azione stessa di riportare alla memoria le persone care con cui si è condivisa parte dell’esistenza biologica significa in primo luogo ricordarle, ma in secondo luogo ‘riconoscerle’. Di conseguenza il processo poetico del florilegio si fa poietico e gnoseologico, cioè riappropriazione di ciò che è stato e che attraverso la memoria diviene ‘ab-solutus’, in senso etimologico. Di conseguenza, quia absurdum, l’assenza diviene presenza e gli opposti coincidenti: «Ma nelle trame del cuore / scorre la tua linfa forte / legame primo dell’esistere / fuoco eterno di memoria. / E, madre, ti cerco / in questa grande assenza / non più da me protetta / in tardo tempo / come tu fossi figlia».

L’assenza e l’attesa divengono il nucleo dell’incontro (non a caso Incontri è il titolo della quarta sezione del libro). Non bisogna sottovalutare nella poesia di Maria Luisa Daniele Toffanin il valore dell’attesa e dello stare in limine, il quale sta a significare una continua ricezione di impulsi e di sentimenti che si riconducono ad una vitalità poetica e comunicativa indirizzata all’oltre, verso una maggiore coscienza (o superamento) di quanto acquisito o meditato. L’incontro, dunque, può avvenire sia attraverso quanto abbiamo già enucleato (memorie, visioni, affetti ecc.) ma anche attraverso l’osservazione e la fede. Il primo richiama l’ekphrasis della lirica ellenistica, cioè quel procedimento riconducibile, con le dovute originali variazioni attuate dall’autrice, alla descrizione di un’opera d’arte che nella sensibilità moderna diviene lettura di un determinato sentimento (esaltazione della purezza o della bellezza, contemplazione delle arti, riflessione sull’anima ecc.). Il secondo caso, la fede, si relaziona in più parti alla figura della Madonna e alle sue manifestazioni artistiche. Ma è necessaria, a nostro modo di vedere le cose, una considerazione più precisa. La rievocazione della madre di Cristo è un modo per sottolineare l’essenza della donna che, tra espressione terrestre e considerazione celeste, è costituita dalla maternità, ovvero dalla possibilità elettiva di creare vita. Non a caso, da un punto di vista occorrenziale e lemmatico, come già notato in precedenza, ritroviamo nella silloge ben 36 occorrenze del lemma ‘madre’ e rare attestazioni di ‘padre’, tra l’altro quest’ultime per lo più rivolte al ‘Padre celeste’. L’incontro avviene, dunque, sia ad un livello affettivo sia ad uno fideistico.

I Florilegi assumono una struttura unitaria e potremmo azzardare l’ipotesi che si strutturano come poemetto composto da cantiche (quelle che abbiamo chiamato ‘sezioni’) e da canti (ovvero le singole ‘liriche’). Si tratta di un’idea che ci viene confermata dall’ultima parte del libro: Florilegi d’amore e memoria. Essa condivide e inspira il titolo dell’intera raccolta riferendo però al sentimento amoroso la specificazione del soggetto. A conferma di quanto già notato, quest’ultima sezione si apre con una dedica a Maria, la madre delle madri, simbolo per eccellenza della sofferenza della donna, condizione assoluta della dialettica insita nelle creature predilette da Dio. L’ossimoro dell’esistenza, lungi da essere una scorporazione o scissione, si mostra come saldo approdo poetico, perché il fine ultimo della ‘rinascenza’ è costantemente evocato. L’alchechengi o la peonia si rivelano simboli floreali nel passaggio dalla morte alla rinascita, cogliendo il sostrato archetipico della vita: «Solo un attimo / e la pioggia pure nella gioia / ti spetala l’effimera tua gloria / in giorni inattesi d’aprile. // E scomposta a terra tutta / giace armonia-bellezza umana» (Il ciclo di

peonia, III). L’atterramento non è definitivo, il mito riverbera il suo potere salvifico, la conclusione di quest’ampio poema si concretizza in una salda concezione ‘futurale’: «…è l’ora che Eolo chiami a raccolta i venti / e l’azzurro si vesta di pioggia / ché sferzi la rinnovata vanità / della femminea vegetale materia spavalda // è l’ora del mito reiterato. Sempre» (Il ciclo di Peonia, V).

Un aspetto importante della silloge, che soggiace ad ogni scelta lemmatica e versificatoria, è la raffinatezza stilistica. Innanzitutto bisogna notare la mistione di un lessico quotidiano, della tradizione poetica e di un lessico colto con prelievi dalla lingua madre (latino) o con riproposizioni italianizzate di termini greci. Si tratta di un procedimento di rara intensità e bellezza e molto raro nel panorama della poesia contemporanea, che non è un semplice recupero linguistico finalizzato al ‘dottismo’, ma un approccio sentito e sperimentale, che non rende affatto la poesia incomprensibile, ma la munisce di un’istanza significativa ed etimologica che altrimenti sarebbe impossibile. La versificazione è sempre calibrata e veicolata all’argomentazione strofica, ora piana ora franta, capace di equilibrare la voluta sintattica alla struttura del verso.

La creazione poetica di Maria Luisa Daniele Toffanin è espressione dell’enigma della vita e dell’uomo contemporaneo, è una letteratura che va alla ricerca dei valori eterni, è un inno alla vita e alla sua complessità, al contempo si dimostra come cogenza interiore al fine di una riproposizione catartica. Non manca, difatti, la concezione del limite e della natura lapsa. Per questo motivo Florilegi femminili controvento è una silloge varia e intricata, una costruzione di sagome, specchi e ragnatele. [Giuseppe Manitta]

 

Magia di attese: prefazione di Stefano Sodi e postfazione di Mario Richter

Ancora una volta la riflessione poetica di Maria Luisa Daniele Toffanin attinge al lessico e all’ambientazione familiare per approfondire un tema caro al mondo della letteratura e della filosofia: quello dell’attesa e – in senso più ampio – del tempo.

Articolata in due sezioni – l’attesa bambina e l’attesa matura – questa preziosa plaquette utilizza la diacronia per condurre ad un medesimo esito, che l’esergo kierkegaardiano sembra rappresentare con efficacia: l’attesa, carica di emozioni, aspettative, sogni, stupori, prospettive è momento così ricco da conferire pienezza di senso al futuro evento, anche quando per esso non fosse valsa la pena di aspettare o che comunque si fosse dimostrato inadeguato alle aspettative.

Luogo – fisico e metafisico insieme – dell’attesa bambina è la «stanza bassa», il seminterrato della casa in cui la madre dell’autrice quotidianamente organizzava per la figlia e le sue cugine piccoli spettacoli teatrali, utilizzando il gioco scenico per aprire loro progressivamente gli occhi sul mondo. La magia della rappresentazione era mediatrice di una crescita psicologica più che fisica (l’«apnea emotiva / d’entrare in scena», l’«universo emozionale / più che uno studio Porta a porta») che, con i suoi successi ed insuccessi, se non vaccinava almeno preparava alla «vita vera / che entra in scena / arrogante a passi di bufera / ti burattina a suo piacere / ti squassa spacca strappa / dall’albero della felicità». Quello stesso spazio che l’autrice – divenuta madre a sua volta – tenta di riattrezzare «con fili di fantasia-energia» per i propri figli affinché «si ravvivi rinnovi s’eterni / in noi voi ed altri / nella girandola del tempo / lo stupore dell’attesa» e che costituisce ora per lei «terra d’approdo ove sostare insieme / al riparo del ricordo / elevare altari di poesia / sull’orlo del naufragio dei giorni».

Un crescendo nell’attesa è quella ‘matura’, articolata in tre diversi sitz im leben. Il primo (Ti aspetterò nell’incontro del cuore) ricorda l’attesa della prima nipote, attesa connotata da una radicale solitudine («Sola al balcone del cuore / colgo echi rari battiti / dell’emozione vostra») che si pone in dialettica contrapposizione alla prima attesa bambina, così carica di ‘compagnia’, ma che è comunque presaga della vita che si rinnova e torna a dar luce («sarai luce-lucciola / tenero guizzo / che riaccende l’ombra. // Tenderò le mani / le illuminerò stringendola») e in virtù della quale l’autrice intende svolgere un rinnovato ruolo di rassicurazione e protezione che dal figlio si allunghi alla piccola («Stenderò le mie braccia / come ali di stelle / sui vostri passi insieme // se l’eclissi s’annuncia / e il pensiero s’oscura»). Nel nome della gran madre è invece l’esaltazione dell’arcano riallacciarsi delle trame della vita. La nascita di Lia – una bisnipote il cui padre, che aveva intessuto profondi rapporti di affetto con la madre dell’autrice, ha voluto dare il nome della gran madre – apre nuove chiavi di lettura al senso dell’esistenza umana, la cui immortalità è data anche nella dimensione immanente proprio da quel legame di affetti e sentimenti che lega le generazioni. Così in lei sarà possibile cantare l’incanto di ogni infanzia «stupore-innocenza-prodigio / che ci dilata e continua il cammino / oltre orizzonti dell’umano tempo / nel disegno infinito di Dio». Infine Nidi stellati di gioia, due poesie ancora una volta occasionate da una nascita, ci invitano a riflettere sull’affascinante analogia tra macro e microcosmo, tra la generazione di nuove stelle e quella di nuovi bambini, caratterizzate dal comune sentimento della ‘sim-patia’, termine greco che indica l’intima sintonia, il ‘battere insieme’ così «fra celesti elementi» come «fra presenze care».

Riguardo al verseggiare di Maria Luisa Daniele Toffanin è doveroso ricordarne qui alcuni stilemi, che si ritrovano in tutte le poesie: le parole doppie (fantasia-energia, uomo-natura, memorie-fondale, messaggi-segni…) o addirittura triple (magistra-fanciulla-corista, arte-catarsi-emozione, fascino-limite-misura, vela-faro-volo) tese a presentare e quasi esplicare ruoli, funzioni, significati che ottengono un effetto di moltiplicazione polisemica, i neologismi (ad esempio il termine «biscoteca», distorsione di «discoteca» – peraltro citata nel verso seguente – ma profondamente legata proprio alla quotidiana esperienza infantile della merenda nella poesia VI de L’attesa bambina), o l’uso ripetuto e sapiente delle sinestesie (colori come rumori, suoni come forme e via cambiando) che le servono a dare una particolare efficacia alle immagini ma anche a sottolineare che l’ordinaria morfosintassi è inadeguata per esprimere compiutamente l’operazione letteraria, e di molte altre figure retoriche (anastrofi, assonanze, anafore, metafore, metonimie, ossimori). Infine l’uso ricorrente dei tempi, dei mesi, delle stagioni, dei fiori che nulla hanno di esornativo ma che servono a indicare icasticamente, con immediata efficacia rappresentativa, stati d’animo e sentimenti.

Tutto questo non tanto (o non solo) per mostrare la padronanza che l’autrice possiede della lingua italiana, ma per sottolineare come tale dominio non sia finalizzato ad una raffinata ma leziosa manifestazione della propria capacità bensì divenga strumento per una versificazione armoniosa che – attraverso un gioco sottile ma profondo di rimandi ed allusioni – disveli progressivamente la profondità del contenuto che si intende proporre al lettore.

Il lessico allusivo e suggestivo e l’euritmica e melodica sonorità delle poesie, caratterizzata da un’alternanza di unità metriche più brevi e più ampie, con non rare rime interne, concorrono pertanto a ricreare quella magica e misteriosa atmosfera che caratterizza appunto l’attesa intesa non più come semplice insipienza o puro fieri ma come dimensione esistenziale, habitus necessario a relativizzare l’esistente e ad aprire a nuovi e talvolta insperati varchi verso l’eternità. [presentazione di Stefano Sodi]

In questa nuova raccolta poetica Maria Luisa Daniele Toffanin impegna le migliori risorse della sua sensibilità e perizia artistica per richiamare in vita e illuminare tutto un mondo di sentimenti e di affetti che traggono le loro più segrete e sottili emozioni dall'interno delle pareti domestiche e dai più delicati e trepidi rapporti famigliari. Il punto di vista adottato, quello dell'attesa nei suoi diversi aspetti temporali, conferisce al processo rimemorativo il suo significato profondo, una ricchezza di immagini e prospettive che si fa via via privilegiata sorgente di “magie”, dall'infanzia all'età adulta, per infine aprirsi, nella penultima sezione (Nel nome della Gran Madre), a più larghi e a più alti orizzonti. Il filo conduttore è quello amorosamente materno, che si esprime, sempre uguale e sempre diverso, nel succedersi delle generazioni. La natura illusoria delle rievocazioni ha nell'immagine del teatrino il suo centro irradiatore, capace di trasformarsi, nel ricordo, in valori autentici e durevoli (“infanzia remota / ancora in me raccolta”). Rivissuta sul piano domestico, la situazione non sembra a tratti nemmeno estranea a un memorabile testo baudelairiano, Le Rêve d'un curieux, che ha proprio nel bambino, nel teatro e nell'attesa le componenti tematiche di una riflessione altamente drammatica. Nell'Attesa bambina (primo tempo), la madre diventa la “burattinaia d'una compagnia” che poi si rigenera nel tempo: “Così mutata insegna / in uno spazio medesimo / si ravviva rinnova s'eterna / in noi voi ed altri / nella girandola del tempo / lo stupore dell'attesa”. Anche le parole tendono a farsi, suggestivamente, espressione d'infantile incanto teatrale, sono appunto “parole burattini / con lacrime e sorrisi umani”. La loro funzione è interamente orientata a “fermare / il senso d'ogni attimo” con la consapevolezza e la ferma convinzione dell'autrice che è necessario “al riparo del ricordo / elevare altari di poesia / sull'orlo del naufragio dei giorni”. C'è nella Toffanin una speciale capacità di evocare, come ancora sapeva Baudelaire, i minuti felici (“Je sais l'art d'évoquer les minutes heureuses”), e lo fa con uno slargo elegiaco di non comune respiro: “Era d'aprile al vento di glicine e viole”. [postfazione di Mario Richter]

 

Matteo e Gigetto il rospo di mare (fiaba): recensione di Nazario Pardini

La Natura, i suoi reconditi misteri, i suoi trionfi cromatici, le sue figure simboliche, i tramonti, i mari, gli autunni, le albe, hanno sempre influenzato la scrittura della Toffanin. È in essa che la scrittrice ha voluto sempre concretizzare tutto il suo pathos, tutta la ricchezza del suo essere, tutto il magma del suo esistere; ed in questo racconto, dove un colloquio serrato tra un adulto (la scrittrice) e un fanciullo vivacizza la fluidità ritmica e la ricchezza verbale del dire semplice, si snoda tutta la filosofia panica, tutto l’amore per un naturismo che le permette di raggiungere punte di generoso lirismo ontologico ed anche didattico sia in prosa che in poesia. «Hai ragione, ma sono certa che non dimenticherai mai questa avventura». «Eh sì» conferma pensieroso «anche perché mi ha aiutato a comprendere che il voler bene ad un animale, in realtà, è volere soprattutto il suo bene. E poi so che è tanto grande il mio amore per la natura che sicuramente farò altri incontri in questi giorni al mare». [Nazario Pardini]

 

 

Con Massimo Toffanin

I luoghi di Sebastiano: presentazione di Giampaolo Romanato

Un uomo d’altri tempi, Sebastiano Schiavon (1883-1922), il leader del mondo contadino che infiammò le campagne venete negli anni precedenti la prima guerra mondiale e fu eletto due volte in Parlamento, nel 1913 e nel 1919. Morto quasi un secolo fa, vissuto in un Veneto ancora largamente premoderno, non era ormai che un nome disperso in volumi che oggi maneggiano solo gli studiosi di mestiere. A trarlo dall’oblio, ricostruendone la vita breve e drammatica, fu Massimo Toffanin, legato alla sua memoria anche da ascendenze famigliari.

Il suo volume (Sebastiano Schiavon. Lo“strapazzasiori”, Padova 2005), denso di note, di riferimenti bibliografici e d’archivio, ci ha fatto ritrovare un personaggio vivo, autentico, sanguigno, che fece scelte difficili, drammatiche, meritevoli di essere ripensate. Una per tutte: nel maggio del 1915 fu uno dei pochi parlamentari che votarono contro la concessione dei pieni poteri al Governo Salandra. Perché quel voto merita rispetto e attenzione? Perché se i deputati che la pensavano come Schiavon fossero stati maggioranza invece che minoranza, ci saremmo risparmiati l’entrata in guerra, settecentomila morti e una crisi che poi travolse tutte le istituzioni rappresentative, regalandoci il fascismo.

Ma anche quel libro di Massimo Toffanin era destinato ad un pubblico scelto, selezionato, di “addetti ai lavori”. Ben pochi giovani, forse nessuno, mette gli occhi su libri come quello, pieni di note, di riflessioni, di minute discussioni. E così l’autore ha pensato di trasferire la sua ricerca, con la collaborazione di Maria Luisa Daniele Toffanin, in un testo più semplice, discorsivo, fatto di domande e risposte, pensato come un dialogo con la nipote adolescente, che nulla sa di Schiavon e delle lotte sociali di allora.

Ne è nato questo volumetto – cui auguro successo e diffusione – rivolto ai giovani d’oggi, che hanno il diritto (e anche il dovere) di sapere quante sofferenze ci sono dietro il loro benessere attuale, quanti Schiavon ci sono all’origine di quella fragile società opulenta in cui vivono. [Giampaolo Romanato]

 

Con Mario Richter

Il sacro e altro nella poesia di Andrea Zanzotto: premessa di Richter

Ronsard (che certo non era uno in odore di santità), riprendendo la riflessione medievale e umanistica che da Albertino Mussato porta a Petrarca e a Boccaccio, si riconosceva appartenente a una tradizione poetica che, fin dall’origine, trovava la sua unica giustificazione in una «Teologia allegorica». In tempi a noi più vicini, Apollinaire, un altro poeta che nessuno avrebbe mai raccomandato alle educande, si spingeva oltre e, mutuando un pensiero di Donoso Cortés, diceva che «tutte le grandi questioni, tutte le grandi cose vanno alla teologia o ne provengono». Sono naturalmente molte altre le testimonianze che si potrebbero ricordare a riprova che la poesia ha da sempre un rapporto privilegiato con il sacro. Ancora poco tempo fa, del resto, Adele Desideri ha affrontatol’argomento organizzando un prezioso convegno (La poesia, il sacro, il sublime, Milano 2009) e pubblicandone i relativi atti.

Potendo contare su tanto significativi precedenti e incoraggiata dalla generosa e illuminata accoglienza del padre Abate Norberto Villa nella sua antica abbazia di Praglia, la poetessa Maria Luisa Daniele Toffanin ha ottenuto la sponsorizzazione dell’Associazione Levi-Montalcini e la collaborazione di eletti studiosi per dare attuazione alla sua felice e opportuna iniziativa di dedicare

una mezza giornata di studio, appunto sul tema del sacro, alla memoria di Andrea Zanzotto a un anno dalla scomparsa.

La mattina del 6 ottobre 2012 un numeroso e attento pubblico si è dunque raccolto nella bella sala dei convegni dell’abbazia per ascoltare gli interventi dei critici e studiosi che si sono impegnati per un adeguato approfondimento di un tema tanto delicato e, nel caso di Zanzotto, certamente assai poco scontato.

Il padre Abate, autore di un ispirato salterio moderno, ha inizialmente rivolto il suo caloroso saluto ai relatori e ai presenti leggendo anche le parole augurali che la presidente dell’Associazione Piera Levi-Montalcini, non potendo essere personalmente presente alla manifestazione, ha inviato in una gradita lettera. Di seguito Maria Luisa Daniele Toffanin ha spiegato le motivazioni dell’iniziativa, indicate in un’offerta ai giovani che, con una cultura di qualità, possono compiere scelte scolastiche e professionali più consapevoli; ha poi rivolto un toccante ringraziamento al poeta – del quale fu stimata amica – per il suo incontro, avvenuto nel 2000, con gli studenti dell’Istituto Tecnico «Alberti» di Abano, anche in quel caso patrocinato dall’Associazione Levi-Montalcini.

Il convegno è quindi proseguito con la lettura di «Altri topinambur » (Meteo) da parte del bravo leggitore Federico Pinaffo, che ha poi via via ‘illustrato’ le singole relazioni recitando alcuni altri testi poetici di particolare rilievo in rapporto ai valori del sacro.

Antonio Daniele (professore all’Università di Udine e poeta) si è successivamente soffermato, giustificando la scelta di Praglia come sede dell’incontro, sull’intenso rapporto di Zanzotto con il paesaggio euganeo inserito nella storia della cultura che nei secoli ha attraversato i colli.

Lo ha seguito il noto poeta e critico Silvio Ramat, professore all’Università di Padova, il quale ha preso le mosse da una poesia significativa come «Impossibilità della parola» (Vocativo) per poi addentrarsi in un’approfondita ed esauriente analisi dell’intera opera zanzottiana con l’intento di rilevare le molte voci appartenenti alla sfera del sacro nelle loro varie accezioni, anche se, a suo parere, tali voci non sembrano chiaramente attestare l’esistenza di una effettiva religiosità del poeta. Più aderenti al sacro gli sono peraltro apparse le sequenze dialettali da Mistieròi e da 8 Il sacro e altro nella poesia di Andrea Zanzotto Onde éli oltre ad altri testi presenti in Idioma.

Dopo le perlustrazioni testuali di Daniele e Ramat, il sottoscritto si è brevemente soffermato sull’uomo Zanzotto rievocando i suoi personali rapporti col poeta, del quale ha messo in rilievo, anche grazie alla testimonianza di alcune interviste, la singolare saggezza, l’umiltà quasi evangelica e la convinzione che avvicinarsi a Dio è cosa naturale come il respiro.

Francesco Carbognin (dell’Università di Bologna) si è avvalso della sua assidua frequentazione del poeta e della sua opera per rivisitarne puntualmente alcuni testi e per chiarire che Zanzotto ha messo a frutto l’iniziale e nutritiva esperienza ermetica con l’intento di trascendere il neorealismo postbellico lasciando intendere che non è sacro tutto ciò che va oltre la misura o oltre il limite ma lo è l’idea di paesaggio (dissacrato, cancellato), di persona, di linguaggio stesso.

Padre Espedito D’Agostini, ricordando infine gli incontri di Zanzotto con padre David Maria Turoldo, ha condiviso di quest’ultimo il concetto che tutta l’avventura del poeta è vita biblica, più reale di quanto non si pensi.

A chiusura del convegno, Marisa Michieli Zanzotto ha preso la parola per esprimere la sua gratitudine ai presenti e per rievocare  suggestivamente, per quanto attiene al sacro, alcuni rilevanti aspetti dei molti anni passati accanto all’illustre marito. A lei e ai suoi figli dobbiamo il privilegio di far conoscere qui in facsimile la traduzione inedita della lettera paolina ai Colossesi alla quale Zanzotto attese negli anni sessanta.

Al di là degli inevitabili rapporti che da sempre la poesia intrattiene col sacro e con l’eterno (rapporti che sarebbero quindi in varia misura riscontrabili in ogni poeta), il convegno ha messo in chiara evidenza la specificità dell’incidenza dei più autentici valori religiosi presenti nella vita e nell’opera di un grande poeta, ritenuto ‘laico’, come Zanzotto. [Andrea Zanzotto]

 

Sull’opera letteraria dell’autrice:

Silvana Serafin: Pensieri nomadi. La poesia di Maria Luisa Daniele Toffanin

Introduzione di Silvana Serafin

Il presente volume si focalizza sul nomadismo, condizione intrinseca dell’essere che, dalle origini dei tempi, vaga sulla terra alla ricerca di risposte per dare significato alla vita, per aggrapparsi a qualcosa in cui credere per non morire. Un viaggio inteso come metafora di un’incessante migrazione: dalla vita alla morte, dal noto all’ignoto, dal certo all’incerto, dalla materia allo spirito, da una realtà geografica ben connotata e sentita come propria ad un altrove che affonda le sue radici in altre culture. Sovente, come nel caso degli emigranti costretti ad abbandonare la patria per motivi di sopravvivenza o per imposizioni politiche, le nuove terre, prive di punti di riferimento, disorientano e annullano la volontà per poi costringere a re-inventare culture diverse da quella originaria, frutto di apporti molteplici in un meticciato culturale in costante evoluzione. Allo stesso modo, il poeta e nello specifico Maria Luisa Daniele Toffanin, nel suo viaggio attraverso luoghi geografici, storici, memoriali e mentali, ha assimilato forme di culture varie. Le ha rielaborate secondo una particolare sensibilità sino a plasmare un proprio sentire poetico che diviene luce, àncora di salvezza, voce di conforto anche per il lettore.

Dal pensiero alla parola scritta: il viaggio si fissa sulla pagina bianca e l’esperienza personale diviene patrimonio della collettività grazie al valore simbolico della scrittura che si fa interprete d’inquietudini esistenziali, di pause meditative e di entusiastici slanci nel contemplare la natura e il suo ordine segreto.

Attraverso la narrazione, in prosa e in poesia, viaggi reali in terre lontane e sconosciute, o all’interno delle coscienze individuali, connotano la stretta relazione tra tempo e movimento, la cui struttura diacronica è rappresentata da linee parallele di direzione opposta. Da una parte, il tempo psicologico/personale che, a contatto con la natura, permette di ricuperare i ricordi dell’infanzia, della giovinezza, i valori di un’epoca dimenticata. Dall’altra parte, il tempo del mito, dell’immaginario collettivo che, proprio nella natura, perpetua la memoria di remote esperienze.

La meta da raggiungere è sempre la medesima: la ricerca della verità in cui implicito è il concetto di felicità. Tuttavia, lungo è il tragitto da percorrere, non certo privo di ostacoli e di difficoltà che, il più delle volte, risultano insormontabili accentuati dall’oscillare continuo tra dubbi e certezze, tra espansioni verso il futuro e il regresso al passato.

Un viaggio che, inevitabilmente, si avventura anche nell’ambito espressivo, nei meandri della sperimentazione, nella scoperta di rapporti linguistici nuovi, nell’uso di forme metriche appartenenti alla tradizione e rivisitate in chiave moderna. Quinario, settenario, novenario ed endecasillabo, organizzati in strofe varie, anche in haiku, si fondono e si confondono in una poesia che, nel catturare l’esistenza ‘in fuga’, supera gli stessi limiti linguistici e la struttura dei versi. Allo stesso modo, il vagare all’interno della prosa è un ulteriore superamento degli abituali settori espressivi, segno che la creatività non conosce confini e che ogni pensiero contribuisce alla scoperta di una realtà altra in cui è più facile trasmettere la testimonianza della propria indagine interiore.

Di conseguenza ho suddiviso il testo in tre capitoli: i primi due riguardano strettamente l’evoluzione di un percorso mentale animato dallo stupore e dalla curiosità che ha spinto l’autrice sui sentieri della poesia e dell’ermeneutica. Il terzo, infine, è riservato all’impatto che la sua opera ha avuto nell’ambito della ricezione letteraria.

In “Appendice”, è riportata la sua ultima fatica poetica che presenta interessanti apporti innovativi, segno che la ricerca continua, mai paga dei risultati raggiunti, ma soprattutto di… poesia, una ventata di aria pura in un ricupero d’innocenza, che le permette di vivere con maggior leggerezza i disagi esistenziali.

Doveroso da parte mia questo omaggio a Maria Luisa Daniele Toffanin, approdata da oltre un decennio alla scrittura, ora impostasi con grande personalità ed incisività nel panorama letterario contemporaneo. [Silvana Serafin]