Tu sei qui:Poesia>>Egidio Di Spigna

Egidio Di Spigna
Dimensioni carattere:

Note biografiche

Egidio Di Spigna, Medico Chirurgo specialista in Radiologia presso l’Università di Pisa ed in Oncologia presso l’Università di Genova, già Primario Radiologo Ospedaliero, attualmente consulente Radiologo presso Casa di Cura San Camillo di Forte dei Marmi. Appassionato di poesia fin dal tempo dei suoi studi classici, pubblica nel 2013 una raccolta di versi dal titolo “Dietro l’uscio socchiuso” comprendente 103 poesie relative a cinque diverse tematiche, presentato nel febbraio 2013 all’Accademia Capellini della Spezia ed alla manifestazione “Libri per strada” tenutasi a Sarzana. Nello stesso anno partecipa a due importanti concorsi: “Premio internazionale Città di Pontremoli”, ove ottiene il terzo premio assoluto per la poesia inedita e “Concorso nazionale di poesia “Il Litorale”, dove ottiene il premio speciale della giuria.

 

 

 

Note critiche

“C’è l’anima della Liguria nella poesia di Egidio Di Spigna, c’è l’amore per la sua terra, che è anche la mia. E c’è la cocente nostalgia, l’amaro rimpianto, per ciò che non è più: la semplicità della gente, la genuinità dei cibi, l’armonia del paesaggio non inquinato da costruzioni deturpanti. Il medico illustre prestato alla poesia sa, nei suoi versi pieni di melodia, staccarsi dalla scientificità dell’osservazione obiettiva per calarsi nella dimensione del sentimento, per trasformare il ricordo in memoria, volta a conservare e tramandare le emozioni che non si possono più provare. Di questo, da sua concittadina, come lui innamorata del nostro golfo, non posso che ringraziarlo.”

Rina Gambini – Antologia “Il fascino della memoria”

 

Letture


Donna come la luna

Luna, il tuo volto
sempre uguale a sé stesso
mostri la sera, e adesso
un po’ per vanità e un po’ per gioco,
con femminea sapienza civettuola,
come donna che crede d’esser sola
allo specchio segreto ti confronti.
Ora ti guardo traverso la fessura
d’ una porta socchiusa
ed a me ti concedi a poco a poco,
poi d’ improvviso irrompi sulla scena
nello splendore di tua bellezza piena.
Reciti la tua parte, e al tempo giusto
vai via per non tediare, e lentamente
retrai te stessa dentro la tua ombra.
Indi scompari, dalle quinte inghiottita.
E la platea zittita t’ aspetta
senza mostrar stupore né sorprese
poiché ben sa che tornerai tra un mese.
Ti attende fresca la terra 
per accogliere i semi,
ti attende il mosto per trasformarsi in vino,
ti attende la marea
ed il tuo aiuto chiede Rugantino.
Il pittore t’ aspetta
per dare giusta luce alla sua tela,
il musicista per trovare una frase musicale.
Chi più t’ aspetta è tuttavia il poeta,
per un sonetto, una stanza, un madrigale
a versi sciolti oppure con la rima,
per comporre l’ ordito ed una trama,
un monile prezioso o una catena

da donare stasera a chi si ama.

 

La sesta terra


Cosa potrei portare nel mio viaggio?
Un briciolo di terra polverosa
strappata con fatica alla scogliera,
grappoli d’ uva maturati al sole,
gialli, lucenti, preziosi più dell’oro,
ed ulivi e limoni di Liguria,
cullati al vento fresco di maestrale,
l’ aspro sentore della schiuma bianca
di un’ onda che s’ infrange sulla roccia,
una lisca d’ acciuga, il pan del mare,
che s’ inargenta a luglio, e tutto l’ anno
il pescatore aiuterà a campare;
case arroccate, dai colori accesi
che si tengono su, spalla con spalla
e tutte insieme sembrano castella.
Un piccol cimitero di paese,
nato chissà perché sulle scoscese
lame taglienti della nera ardesia,
modesto tempio di misteri arcani.
E la voce dei morti, che si sente
quando il tramonto si fa crepuscolare
< Ora va’ puoi partire, ma ricorda
che un giorno fra di noi vorrai tornare>

 

Perché mi spii…


< Perché mi spii? - disse al trovier la luna -
Son forse una tua ancella o la tua amante ?
Io son Selene,  Diana della notte,
che si mostra
nella pienezza di tutte le sue forme >
< Io non ti spio, ti osservo attentamente,
chè ti voglio rubar l’ anima e il cuore,
i silenzi e la voce.
E ne farò parole,versi e rime
che metterò in un libro,
ed alla fine
lo sottoscriverò con il mio nome.
Mi diranno “ Poeta ! “
Ma poeta non sono, sono un ladro.
E so solo rubare.
So soltanto rubar, ma con destrezza,
l’ amore, i sogni e l’ altrui bellezza. >


Fotografia


E pensare, che di te
non ho neppure una fotografia,
accartocciata dentro il portafogli
o in bella mostra sulla scrivania.
Ma che me ne farei.
Tanto il tuo viso
lo porto dentro il cuore,
e nella mente gioca il tuo sorriso,
mentre nell’ anima ondeggia la tua voce,
come piuma leggera,
che si muove
dentro il soffio leggero
d’un sospiro.


La Dydi


Place Vendome.
Quella sera la guardavo
come attraverso un vetro un po’ appannato.
Nell’ osservarla la raffiguravo
giovane dama di lignaggio antico,
abbigliata in attesa della notte
sol con un velo di seta trasparente
che a mala pena le celava il seno.
La luce dei lampioni si scioglieva
dentro le pieghe, e sulle forme tonde
fatte di nebbia e d’ immaginazione.
L’ assoluto silenzio era un sorriso,
la smorfia d’ un destino irriverente.
Parigi ha mille piazze e mille ponti.
Se la Dydi dovessi ritrovare
forse in un boulevard lungo la Senna,
forse in un viale dei giardini Elisi,
mi farò incontro senza dir parola,
delle lacrime mie le farò dono
<< Ancora oggi, una volta sola ! >>
Poi me ne andrò, chiedendole perdono.


I vecchi marinai del mio paese


I vecchi marinai del mio paese
hanno la solitudine nel cuore,
hanno l’ aria sicura e distaccata
di chi sa sempre quel che deve fare.
Li puoi trovare, da mattino a sera,
nella piazzetta all’ ombra della chiesa.
Per ore ed ore senza dir parola
gettano sguardi opachi verso il mare
per inseguire fino all’ orizzonte
ogni vascello che abbandona il porto,
ed oltre ancora, e vogliono sognare
quel che han già visto mille  e mille volte,
e nei lor sogni confondono i ricordi.
Quando parlano raccontano avventure
sempre diverse, eppure sempre uguali,
che san di mare, di porti  di maestrale.
Storie di amori inventati o veri,
sparsi qua e là per gioco in mezzo mondo.
Storie di spose portate sull’ altare
in tutta fretta, perché sai, stasera
la nave salpa e ti dovrò lasciare.
Forse hanno ancora voglia di partire
quei vecchi marinai senza pretese,
per provare di nuovo l’ emozione
di sfidare l’ oceano  e la tempesta.
O forse perché voglion ritrovare
qualcosa che han lasciato chissà dove
che possa ripagar d’ aver vissuto
una vita a metà fra cielo e mare.
I vecchi marinai del mio paese
oggi son contadini o pescatori,
giocano a carte, sono bevitori.
Molti han trovato l’ ultima dimora.
Forse son quelli, che navigano ancora.


Terra di Liguria


Terra di Liguria, terra che non c’è.
Solo roccia e scogliera,
nodose braccia di giganti e ciclopi
fatti di pietra per avere osato
posar lo sguardo su Gorgone Medusa,
ed ora
scontan la pena sprofondati in mare.
Mostrano irsute chiome,
oscuri boschi e inestricate selve,
ove vivono ancora
miti, leggende, ancestrali paure,
sconosciute deità senza dimora
di templi o monasteri,
ed impervi sentieri che salgono a santuari
senza pellegrinaggi o pellegrini
senza chierici e frati, riti dimenticati,
spazzati via da gente d’oltremare.
Terra  fatta così, come nessuna.
Arcobaleno di vividi colori
dorati al sole, argentei nella luna.
E silenziose notti
d’inverno avvolte nella lattea bruma
umide adesso degli umori estivi
caldi e salmastri.
Terra desiderata e mai scordata
dai più che han preferito arare il mare
con prore aguzze di navi e bastimenti.
Terra di patimenti, violata
in ogni porto, golfo, insenatura
in nome di follie che non son nostre.
Terra ruvida e dura, terra di mare
resa gentile da incantate rime,
terra odiata ed amata,
terra che non c’è più,
se mai c’è stata.


Filastrocca di una sera d’inverno


Se ripenso penso alle sere di allora
Quando si era felici con niente…
Ora invece  non basta mai nulla
E il ricordo si fa più struggente.
La vigilia si raccontavan fiabe.
Accoccolati davanti ad un camino,
grandi e piccini si stava lì seduti
come fossimo intorno ad un teatrino.
Corre lo sguardo a catturar la fiamma
mentre negli occhi danzano i bagliori
di sogni che non costano quattrini,
sogni di bimbi che voglion fare i grandi,
i grandi sognano di ritornar bambini.
Il narratore c’è, ma non si vede,
così ciascuno inventa la sua storia
frugando fra i ricordi e la memoria,
ed alla fine finisce che ci crede.
Ogni tanto si mangia qualche cosa,
di cose buone ce ne sono tante,
di caldarroste poi, ne abbiamo a iosa.
Il pane è caldo, e sa di biancospino,
il vino è buono, giovane di tino.
Nella stanza il tepor ci fa star bene:
scalda le mani e ci riscalda i cuori.
Ci siamo tutti, la tavola è imbandita.
E messer gelo lo lasciamo fuori.


Exodus


Quanto distano ancora, comandante,
l’aspro crinale del colle di Siòn,
l’assolata scogliera di Eilat
e l’aria tersa, tiepida, salmastra
sposa del mare e figlia del deserto?
E la terra promessa, ormai pagata
molto di più di quei trenta denari
che son stati per noi condanna e pena?
Quanta scia bianca ancor dovrà tracciare
per mari ostili questa nave dell’esodo,
questa vecchia carretta, cacciata via
da porto a porto, errabonda e reietta,
prima di diventare
un vascello fantasma, una nave di spettri,
indecente leggenda che nessuno
avrà coraggio mai di raccontare?
Soltanto un porto ci accolse nel suo seno,
nella città con l’aquila e la torre
posta sul campo sopra un tondo colle,
e divise con noi sì grande pena
per asciugarci lacrime e dolore.
Così, senza rumore, chi fece poco
fece assai più di quel che fece molto.
Da noi “Porta di Siòn” vieni chiamata.
Per ciò, Spezia, città senza memoria,
e per riconoscenza che ci coglie,
nel Giardino dei Giusti ricordata,
un albero è cresciuto nel tuo nome.
“per tua pietade, e per la tua clemenza”
abbiamo scritto sul tronco e sulle foglie.


L’odò de Portivene


Ae vote a me ven en mente,
ansi, a me ven en gòa,
che a l’è come sentì n’to ké,
n’odò de bon,
en profumo
de pessi piai, friti e condìi
con agio, asè, sivòla e romanìn.
N’odò che punsza,
rimasto proprio uguale
a quelo c’a sentivo da picìn
mentre a coevo
su e zu per ò carugio,
atento a scansà e gente,
i veci e ‘e vecie,
asetà ‘n fìa sorve i scaìn
davanti a cà, ententi a contà i pèi
a chi a pasèva,
specie ai foresti, chi ne conosevo,
ma d’ognùn i disevo
vita morte pecati
corne e pufi.
Quel’odò
‘o ne veniva su dai ristoranti
ma dai barcòn dèe cà,
dae miage e dai porton, serà o raverti,
e dai lastròn dee strade
e o’ petueva tuta Portivene.
Ma mi,
a comensèvo a sentìlo da luntàn,
sza dàa curva do Cavo,
proprio da lì, dove te te trevi
davanti e de traverso
quela sfirza de ca’, l’isoa, a gesèta
e ‘e roche da scogèa, tute ste cose
misse lì non a caso, ma ‘n tèn modo
che tute ‘nseme son proprio ‘na belèssa
fata da Dio, che megio ne sa fà.
Dai, su, fà presto, che ‘a m’ e venua ‘na vogia
de mangiame doe anciòe de quele bone,
de quele soto sà co’ a salamoia
condìe con l’ eio e con a cornabrugia.
E poi a vòj andà sorve àa logèta
a  mià’ o sò che tramonta
e che o petùa de rosso, zalo e rezsa
l’oriszonte, Tramonti e o Muzeròn.
Poi a lusze a se smorta,
e lì a restemo ‘n doi,
mi con a note.
E proprio alòa, come sempre ogni vota
eco tornà ‘na voze,
e a sa resenta come portà dao mà,
‘na voze strana, che a me ten ligào
ciù che ‘na corda, ‘na sima o ‘na cadèna
e ‘a ven zu dao castelo e da Lambrejo:
<Ne te pè ciù ‘ndà via, ormai t’ei come noi,
t’ei come ‘n scogio, ‘na roca de San Pè>
E ‘o belo l’è che fin a ghe rispondo:
<Doman no, a ne posso, ma a ve digo
che ‘n giorno o l’ aotro
a torno ad ogni costo.
E ‘ntanto però, voi, sernìme ‘n posto!>

 

A Ceva

A Ceva torna!

Aigua a bogiè, che a bagna fina i ossi
con di sgossòn seài, e così grossi,
fati come ‘e patate de Pignòn,
che dove i pico i fan rumòi diversi,
ma tuti ‘nseme i pan come n’ orchestra.
Se te te sporszi en po’ fea dàa fenestra
a te pa’ de sentì gente che parla,
a vose bassa che ne te molesta.
A pogo a pogo poi l’aigua a se queta,
e quando a smeta e poghe gosse
i cagio sù dàe foge,
‘na passoeta bagna a fà o se verso,
contenta e maavigià 
che ‘o peso o sia passào,
e così presto.
Lassù, aota e dàa lunta,
‘na nuvoeta gianca 
a se petùa de so’ mentre a se désfa 
e de tuti i coloi d’ arcobaleno,
e a miàlo drento,
a me pa’ fina de lèseghe ‘o te nome,

ma a ne so dite come…come…come.

 

"Dietro l'uscio socchiuso", la nuova raccolta poetica di Egidio Di Spigna, con la prefazione di Giuseppe Benelli

 

IL CUSTODE DELLA SOGLIA

Prefazione di Giuseppe Benelli

 

Il poeta è sempre “il custode della soglia”, protegge la casa dei suoi affetti, dei sogni e desideri, facendoci entrare nell’intimità del suo mondo quando pubblica i suoi versi. Per questo il poeta va sempre protetto e ringraziato: “protetto” perché rischia di far entrare in casa anche i curiosi e si offre al rischio di non essere compreso; “ringraziato” per la generosità con cui si mette in gioco e per i nuovi sentieri che apre coi suoi versi. La poesia, infatti, libera la realtà dalle forme stereotipate che la imprigionano e restituisce all’essere umano una sua dignità. Per questo la poesia è ricerca che si insinua nella vita di tutti i giorni con stupore e sorpresa, fino a diventare la ragione importante e, a volte, principale della nostra esistenza.

La poesia per Egidio Di Spigna nasce dalla necessità profonda e vitale dello stesso esistere umano. Chi sente necessario poetare sa di percorrere sempre un cammino arduo e bellissimo, come un sentiero inerpicato che mozza il fiato e insieme allarga il respiro. La poesia per Di Spigna è ricerca di una pienezza di significato, con un interpellare sottile e pacificato come di chi, in età adulta, non cerca la verità, ma le emozioni dei ricordi. “I vecchi marinai del mio paese / hanno la solitudine nel cuore, / hanno l’aria sicura e distaccata / di chi sa sempre quel che deve fare. // Li puoi trovare, da mattino a sera, / nella piazzetta all’ombra della chiesa” (I vecchi Marinai del mio paese). Il poeta si rende conto che ogni cosa è, in se stessa, indicibile, ma è insieme consapevole che i luoghi e i ricordi possono essere indicati e felicemente richiamati. Nella sua esperienza poetica la forma è l’essenza che i versi portano alla luce in modo che la vita si illumini di senso.

Di Spigna insegue con l’energia di una lingua elegante e sinuosa i vari aspetti della precarietà umana. Proprio i sentimenti di un’intera vita, che possono apparire incustoditi, vengono riportati alla memoria e diventano prioritari. Contro il pericolo che le varie esperienze possano deteriorarsi e sparire, il poeta le rivive in versi che edificano il suo mondo. “Poesia, / lucciola argentea nella notte estiva, / danza leggera di riflessi al sole” (Poesia). La sfida è conservare il tempo che scorre troppo in fretta e sembra svanire: “Regalami un barattolo di latta. / mi servirà per conservare il tempo”. Un viaggio poetico attorno al tempo da tutelare, all’esplorazione di una storia personale che trova origine dalla consapevolezza del cambiamento e dal timore della perdita. Ma il vento della vita non ha disperso l’universo poetico di Di Spigna. Come un tesoro sommerso, i suoi versi emergono dagli anfratti della memoria e si fanno identità del poeta. Così i ricordi diventano emozioni che evidenziano mondi che solo la poesia riesce ad evocare. “Un istante racchiude l’infinito” (Venere).

Poesia semplice e piena, frutto di analisi stratificate dei propri sentimenti, che rifiuta la palude che sembra inglobare tutto e recupera una visione più ampia e serena. Il verso così si fa specchio dell’esistenza che misura col passato il senso della vita. di qui la necessità della “lontananza” per ripercorrere in versi tanta intensità di emozioni: lontananza che si vela di rimpianto e nostalgia, dove il cuore oscilla tra il passato e il presente. L’amore lontano rapisce così l’anima per ristorarla alla fonte della poesia da cui può iniziare il nuovo giorno nella costruzione sicura dell’arte.

Proprio l’arte aiuta a portare nel cuore “questo indomito Ulisse”, a esprimere un desiderio di sintonia con se stesso, un legame di fedeltà, la ricerca di radici ideali. “Noi due si sta su scoscesa parete, / agavi solitarie ed orgogliose / di portare nel cuor questo tormento, / questo Mediterraneo assolato nel vento” (Al maestro Francesco Vaccarone).

Nella continua tensione agli ideali, l’autore ci consegna un libro di storie e ripari che aspirano ad agganciare la realtà al sogno. Nell’incedere poetico di Di Spigna c’è lo stile del viandante, la cui direzione nasce dalla sorpresa di ogni incontro e dallo stupore di nuovi orizzonti. Del resto il poeta parla quel tanto che è necessario per creare le condizioni dell’ascolto. Per questo Egidio Di Spigna, rischiando l’incomprensione e l’isolamento, condivide con noi le emozioni della sua vita. Ogni suo “verso” rappresenta un giro di danza, un’aria di suono e canto che vivono degli spazi da conquistare e che si fidano solo del vento che di volta in volta trascina il poeta a porsi interrogativi che aprono nuovi orizzonti.