Note biografiche
Ester Cecere è nata a Taranto il 30 aprile 1958, dove vive e lavora presso l?istituto per l’Ambiente Marino Costiero del Consiglio Nazionale delle Ricerche, come Prima Ricercatrice. È sposata e madre di due figli.
Ad ottobre 2010 ha pubblicato la sua prima silloge dal titolo “Burrasche e Brezze” con il Gruppo Albatros Il Filo – Roma, che raccoglie le poesie scritte fin dall’adolescenza.
Da gennaio 2011 ha iniziato a partecipare a premi e concorsi letterari, ricevendo, sia per la silloge pubblicata che per le poesie inedite, un alto numero di riconoscimenti. Nel 2012, per le Edizioni Tracce – Pescara, ha pubblicato la raccolta “Come foglie in autunno”, con la sua produzione poetica più recente. Sue liriche sono inoltre inserite in Antologie letterarie, in particolare la lirica “Centrale nucleare”, in “Scissione blues. Poesie contro le centrali nucleari” delle Edizioni La Valliva di Bari, e altre in “Atti del Premio Mario Luzi – Edizione 2011”.
Note critiche
“In questa sua seconda raccolta poetica, che porta il titolo emblematico "Come foglie in autunno", Ester Cecere appare più incisiva e coesa. L'esigenza di controllo sulla parola si fa più avvertita ed emozionata, pure se appartenente ad una scrittura che palesa fortemente il bisogno in sé di dialogare, di esternare il disagio accompagnando la scrittura con accenti suggestivi...
Sullo sfondo di un panorama denso di immagini e vivido per una coscienza lirica che lo simboleggia e lo coglie, vi è sempre trascritto a lettere cubitali un dolore, sordo, acuto, trattasi del dolore universale, trattasi della parabola più sofferta dell'intero pianeta. Non vi è gioia senza lacrime sembra tradurre la poetica di Ester Cecere, non vi sono sogni senza la sofferenza del risveglio.
...Questa poetica ha punte di pessimismo, ma non è mai oggetto di dolore dilacerante, non si consegna al disagio, al male ineludibili; non si lascia sopraffare dal contingente; lotta, fa sue le regole del gioco secondo le quali la vita va vissuta in funzione della conquista, per la sopravvivenza, nella finalità di un aldilà di Luce che brilli allo stupore del primo mattino, con la consapevolezza di esser(ci) proteggendo i nostri intimi pensieri
dall'autocommiserazione, dall'autodistruzione e dalla compassione, deducibili da questi versi: "Mi riempio/ dello stupore dell'alba/ che di rosa tinge/ della notte le ombre,/ dell'eterno sciabordio del mare/ sommessa preghiera di ogni vivente....."
...E ci pare una dichiarazione di Fede, di abbandono innocente e incantato, quasi un inno alla vita, perché ne esprima tutta la gratitudine, con lo sguardo rivolto al Trascendente che in quest'autrice si avverte sommesso, riservato, ma vivo.
Un anelito verso l'Alto, un panismo fatto di religiosità e pudore, di candore e abbandono al Mistero.” Dalla prefazione a “Come foglie in autunno” di NINNJ DI STEFANO BUSÀ
“Nel commentare la silloge "Come foglie in autunno" reputo doveroso partire dalla superba prefazione della Professoressa Ninny Di Stefano Busà e, in particolare, da tre righe di essa.
"Audaci i nostri sensi ci indicano la rotta del cuore, che spesso percorre territori impervi, e tuttavia, continua a pulsare la vita col suo battito d'ala ferita". Questi versi in prosa ci aiutano a orientarci nel mare delle emozioni di Ester Cecere, che in questo volume, si svuota in amore con commovente sincerità.
Il testo è introdotto da un verso di Ungaretti, il titolo stesso della raccolta ricorda Ungaretti e lo spirito dell'intero lavoro echeggia il grande Poeta. Nella lirica che dà inizio alla silloge le foglie che 'si stan / come d'autunno sugli alberi' nella celebre lirica "Soldati", tendono a segnare la storia di un'esistenza, di ogni esistenza, staccandosi l'una dopo l'altra e la chiusa : "Quando al suolo giungerò anch'io come le altre?" è pervasa di un'attesa dolorosa che coinvolge e sconvolge i sensi.
L'intero testo ha un suo 'sentiero'. L'autrice si rintana, talvolta, in isole di 'vaga primavera', ma respira un tempo che è teso ad alienare l'uomo, a renderlo creatura sola. Anche gli elementi del cosmo sembrano 'lontani e distratti', rispetto alle fatiche dell'esistenza. Ester ci conduce nel grembo della propria storia, rivelandoci segreti, rabbie, dolori. La forza dell'oggi, che probabilmente cela dolci fragilità, fame d'amore, ha le fondamenta nelle vicende antiche. Dardo rovente la lirica "Casa in affitto (a mio a padre)", che come molte altre, dà ulteriore senso al verso ungarettiano, anche se lo inserisce in contesti quotidiani. E il progetto artistico di Ester Cecere è articolato con una consecutio, un senso del raccontarsi in versi, che porta lontano dal comune significato che viene attribuito alle sillogi. L'autrice inserisce, una dopo l'altra, con sapienza, le tessere magnifiche e sanguigne del suo mosaico. La narrazione in versi è, a mio modesto parere, un percorso di rara difficoltà. Occorre il filo che tenga unito il 'logos' e in Ester tale filo sembra essere il dolore. Con l'ago della sofferenza, l'autrice ricama liriche nitide, sorvegliate, che sfuggono alla gabbia metrica, ma mostrano padronanza dell'ars poetica e capacità di sbocciare al lirismo nella fruibilità. L'arte della brevità è il connotato che esalta le doti di Ester, capace di tratteggiare in cinque versi una sublime poesia dedicata alla madre i cui ultimi versi recitano: "E troverei risposte / nel silenzio dei tuoi occhi". Le foglie del famoso albero sono i temi ricorrenti della silloge, mai trattati in modo retorico. Vi è qualcosa nei versi dell'autrice di innovativo, oserei dire di rivoluzionario. Canta la propria vita e le esistenze dismesse, violate degli esuli, dei folli, con purezza incontaminata, concedendosi al lettore senza veli.
Nessun ermetismo, nessun ricorso a metafore 'di protezione' o a similitudini. Liriche intense, ricche di pathos, struggenti, tese come le stelle a trafiggere la notte e a indurre alla riflessione.
Si esce dall'avventura di “Come foglie in autunno” più soli e più ricchi. Commento critico di MARIA RIZZI
Letture
Alluvione
Tumultuosi nel cuore i ricordi scorrono, uccelli che migrano per non fare ritorno, grani tra le dita d’un profanato rosario. Alluvione d’odio e follia l’amore travolge. Tenerezza e compassione in rapide d’amarezza precipitano. Tenerezza e compassione su massi di sofferenza si frantumano. Frammenti d’amore calpestati infangati, dall’uragano lucciole inghiottite. Macerie nel cuore contratto desolazione e miseria, e la dolorosa certezza d’una parte di sé che non è più.
Una visione intimistica di un evento catastrofico che ha distrutto uomini e cose: decisamente nuova questa interpretazione dell’alluvione, altalenante dal materiale allo spirituale, oscillante tra gli elementi concreti e quelli dell’anima. Pare quasi che la poetessa voglia assimilare ciò che è accaduto nei tragici momenti del disastro con ciò che accade nel cuore degli uomini, cosicché anche i versi della lirica si alternano in direzioni diverse, a osservare effetti drammatici dentro e fuori dalle persone coinvolte nella tragedia.
Commento di Rina Gambini sull’Antologia “Città di Pontremoli” 2012
Volevo essere
Volevo essere arenaria ché l’acqua mi disegnasse e mi modellasse il vento. Rigido granito sono, scivola via la pioggia e non mi scalfisce il maestrale. Volevo essere arbusto per giocare col sole e sul suolo arabeschi disegnare. Sequoia secolare sono. È pilastro e colonna, la rigida ombra. Volevo essere bambina, con occhi ridenti e voce argentina, e farfalle rincorrere. Con viso scavato da profondissimi solchi, pipistrelli nella notte scaccio.
Un desiderio tutto femminile di essere aiutata, sostenuta, vezzeggiata, contrasta con la realtà della personalità della poetessa, forte, tenace, sicura. Ma questo è ciò che appare agli altri, è ciò che la vita le ha imposto, ché dietro l’apparenza si cela l’insicurezza e la levità che accompagnano ogni essere femminile dotato di sensibilità. E l’autrice si confessa con grande sincerità, con malcelato rammarico che neppure il tono sicuro delle sue affermazioni riesce a nascondere.
Commento di Rina Gambini sull’Antologia “Via Francigena” 2012
L’esule
Tuoni assordanti le voci. Lampi accecanti i visi. Ma egli non è tuono non è lampo. Straniero è nell’ormai remoto brusio. E su se stesso raggomitolato in un prenatale silenzio, come esule fugge il mio io.
Colpa
Lacrime dagli occhi di foglia scesero sul dolore del giovane viso. Solchi di fuoco Nel cuore di madre Scavarono. Ché alta su tutto, solo la sua creatura vede.
Risacca (a mio padre)
La burrasca ho vinto con un’esile barca che a riva portasse i miei cari. Sento ancora il vento fra le sartie, l’angoscioso inabissarsi della prua e l’incerto risalire.
Ora che tutto è calma, la risacca che lenta s’infrange ogni tanto mi parla di te.


Alcune immagini di Ester Cecere, premiata al Premio Letterario Internazionale Città di Cattolica 2012.
21 Febbraio 2012
Aggiornamenti di Ester Cecere
La nuova raccolta poetica: "Fragile. Maneggiare con cura"
Scheda tecnica:
“Fragile. Maneggiare con cura” Kairòs Edizioni 2014, 92 p., brossura
Prezzo di copertina € 10,00
Acquistabile al seguente link
http://www.ibs.it/code/9788898029730/cecere-ester/fragile-maneggiare-con.html
Nota dell’autrice
Perché dare ad una raccolta di poesie un titolo come "Fragile. Maneggiare con cura"?
Un titolo che richiama immediatamente alla mente i trasporti, i traslochi? Perché quando si trasloca spesso si movimentano oggetti fragili, a volte anche di valore, che possono rompersi facilmente; pertanto, è necessario usare la massima attenzione nel maneggiarli. In caso di danno di oggetti di valore, si chiede anche un risarcimento. Addirittura per degli oggetti, per preziosi che siano si pretende di essere risarciti! E le persone? E le loro anime? E i loro sentimenti? E la loro dignità? Non sono fragili anch'essi? Non sono degni di essere “maneggiati con cura”, trattati con la massima attenzione, delicatezza? Spesso si ferisce il prossimo per superficialità, disattenzione, distrazione, a volte lo si fa di proposito con cattiveria, malignità. Si calpestano così affetto, amore, attenzioni, aspettative. Talvolta sono le stesse vicende della vita a "maltrattare" la nostra anima e i nostri sentimenti e quando ciò accade spesso ci ritroviamo soli a fronteggiare avvenimenti dolorosi senza il prezioso conforto della condivisione, dell'ascolto da parte di qualcuno da cui ci aspetteremmo questo tipo di vicinanza. Ed ecco che si affaccia, amara, la disillusione. Ed ecco che i sentimenti ne escono "lesionati", a volte percorsi da crepe più o meno profonde, altre volte decisamente frantumati. Ma l'istinto di sopravvivenza è fortissimo in ogni essere vivente e quindi si va avanti. Sembra incredibile ma anche il nostro sentire può essere riparato, i frammenti vengono raccolti uno a uno e incollati. Tuttavia, un sentimento rattoppato sarà come un vaso cinese dall'inestimabile valore rottosi e ricomposto, non sarà mai più di grande pregio. E quindi, quello che sopravvivrà sarà un simulacro del sentimento originario, una volta genuino e gioioso. Le persone potranno anche continuare a frequentarsi ma l'affetto, l'amicizia, l'amore, l'empatia non esisteranno più. Si reciterà, quindi, una farsa. E le parole, gli atteggiamenti, le disattenzioni, le incomprensioni, le illusioni che hanno portato alle lesioni dell’anima e delle sue espressioni riemergeranno nei momenti critici, saranno i fantasmi cattivi del passato, e solitudine, nostalgia, rimpianto prenderanno il sopravvento e... "da soli andremo avanti percorrendo la nostra strada disseminata di cocci".
Del resto, la grande Oriana Fallaci nel suo romanzo Insciallah così si esprimeva: "Incredibile come il dolore dell'anima non venga capito. Se ti becchi una pallottola o una scheggia si mettono subito a strillare presto-barellieri-il-plasma, se ti rompi una gamba te la ingessano, se hai la gola infiammata ti danno le medicine. Se hai il cuore a pezzi e sei così disperato che non ti riesce di aprir bocca, invece, non se ne accorgono neanche. Eppure il dolore dell’anima è una malattia molto più grave della gamba rotta e della gola infiammata, le sue ferite sono assai più profonde e pericolose di quelle procurate da una pallottola o da una scheggia. Sono ferite che non guariscono, quelle ferite che ad ogni pretesto ricominciano a sanguinare".
Nel suo piccolo, questa silloge vuole richiamare l'attenzione sulla fragilità dell’anima.
Un saggio critico di Nazario Pardini sulla poetica di Ester Cecere
Amare confessioni, ritorni di memoria che hanno lasciato segni, “lame di luce nell’animo a frugare”
Poesia agile, scattante, libera, docile, melodica, suasiva nella sua irruenza contenutistico-verbale. Nel suo reattivo, immediato e spesso convulso risentimento verso un percorso esistenziale zeppo di inquietudini, di malinconiche esperienze, di tradimenti di “orchi reali”. Ma infine di riposi; di approdi ad un redde rationem, carico di una spiritualità che lega il cielo alla terra. Trisillabi, quaternari, ottonari, novenari o settenari; anche endecasillabi, che, spezzati in versi di minor quantità, si traducono in musicalità di piacevole avvicinamento; di simbiotica fusione per dare forma al logos del canto, dove l’armonia del verso contrasta, spesso, con lo stridore di una filosofia che denuncia la ruggine dell’esistere: un dicotomico apparire fra i due volti del “poema”. Ma, soprattutto, poesia che abbraccia con la sua disposizione architettonica ogni input emotivo; che, con i suoi accorgimenti metrici, con le sue varianti versificatorie, si dispone, come ancella, a seguire ogni intendimento emozionale, ogni pensiero sul vivere, sull’esser/ci. E la poesia è vita, è essere, amare, soffrire, godere, riflettere, meditare; è ri/vivere e tirare le somme su ogni sprazzo d’esistenza con cui è inscindibilmente congiunta. Magari gioire di tale esistenza, pur coscienti della sua precarietà e delle sue sottrazioni che ci assillano e ci tormentano. E poesia è, anche, atto onirico, liberatorio; è affrancamento dalle disillusioni del nostro esistere; decantazione di frangenti che si traducono in stati di fragilità, di malinconia, di chiusura, di intimità, e perché no, di isolamento, anche; forse, per mantenere nostro quel patrimonio, che pulsa nel cuore; o forse per salvaguardare quel bagaglio interiore in altri tempi scalfito. Così ci chiudiamo a riccio, o ci rivestiamo di spine di fronte a un mondo non sempre capace di capirlo quel nostro patrimonio, di esserne degno. Il poeta è, infatti, un uomo vivente in tutto il corso del tempo (passato, presente e futuro). E la Nostra lo abbraccia totalmente il suo tempo con una confessione che fa della parola il focus e la sicurezza del ductus poetico. Parola da artigiano: cercata, lavorata, stondata, smussata, smontata e rimontata per darla ad una ragnatela di nessi da sintonizzare al cuore. Parola che nasce da un grido per una ferita non ancora rimarginata. E poesia è verbo, sintagma, misura su cui si lavora fino al raggiungimento di una quiete estetica, interiore, in cui spesso il poeta si rifugia per sottrarsi alle carenze di essere terreni o per abbandonarsi alle dolci illusioni di memoria foscoliana. Quies insomma. Honderlin (1790-1843) chiede al canto che sia per lui “rifugio amichevole” ove l’animo “abbia dimora/ mentre di fuori con tutto il suo ondeggiare/ il tempo possente, il tempo mutevole rumoreggia lontano”. È forse per questo che Ester Cecere “d’ali di vento sospinta...”:
“...elegante e fragile,
nell’aria danzo.
Iridescenze mi vestono.
L’arcobaleno m’adorna.
In me il mondo si specchia” (Bolla di sapone),
e gioisce di questa sua libertà, di questo suo abbandono, di questo suo distacco, perché:
“Oscuro d’insidie
il mio cammino” (ibidem).
E vola, vola, più leggera dell’aria oltre la siepe, azzardando sguardi eterei; lanciando il cuore oltre l’arcobaleno, che l’adorna con tutto il potere della sua iridescenza. Lanciandolo oltre l’umano, pur contaminato dello stesso umano e delle sue aporie. Dacché è cosciente di essere fragile, e sa che la sua avventura è fatta di sperdimenti, di scottature, anche, in una vita che non sempre riconosce la sensibilità di un’anima disposta e disponibile ad incontri di pace e d’amore. Per questo lo teme quel mondo che l’ha illusa e delusa:
“...Il volo d’una farfalla,
la foglia d’un pino,
temo.
Persino, il dito d’un bambino”(ibidem).
È tutto qui il senso etimo-allusivo, la forza conglobante, il prodromico messaggio di un titolo che fa da antiporta a tutta l’opera e ne costituisce tema di coesione ispirativa: Fragile. Maneggiare con cura; sì, trattare con delicatezza una storia che sottintende nel suo corpo sostanza e mistero; amore e focus vitale; ma che è tanto fragile da infrangersi di fronte al più piccolo urto con la realtà; che sembra intatta, forte, ma, al contrario di quel che appare, è percorsa da piccolissime, invisibili crepe, che ne fanno trasparire scottature e tristezze.
C’è una malinconia diffusa, sotterranea a cucire insieme le perle di questa raccolta. Fa da filo amalgamante; un filo che infilza queste perle in una collana preziosa per vis creativa, per vicissitudine umana, e delicatezza poetica. Ester si abbandona completamente al foglio, dà tutta se stessa alla pagina, in un impeto evocativo e di realismo lirico, per spiattellare la sua fragilità e la sua insicurezza senza reticenza alcuna. Questa è la sua grande virtù. Questo il valore aggiunto della sua poesia: la schiettezza, l’onestà intellettuale, e quel che più conta, l’onestà sentimentale. Terriccio fertile di un valido poetare:
“Attenta!
Il tuo volo modera
coccinella gioiosa.
I tuoi slanci frena!
Pulviscolo sei.
In un campo di papaveri
da trattori attraversato” (La coccinella).
A supportare l’effusione di una poetica così tanto vicina a venature leopardiane, di una così ardua allusione di metafore, e di una così vasta plurivocità di dicotomiche passioni, c’è una natura viva, articolata in un simbolismo di polisemica significanza. Una natura che prende per mano l’autrice e l’accompagna tra i suoi visivi paesaggi tanto vicini al fatto di esistere. Una natura disposta a declinare il pathos di Ester in proteiformi espansioni, in abbrivi di tensione orfica dai toni epico lirici. Un panismo che in un mélange di assemblaggi lessicali, accentuazioni aggettivali, intensificazioni verbali o, all’occorrenza, asciuttezze metriche, volge a rendere attuale e incisivo, immediato e calzante ogni stadio del vivere: Fragilità, Incomprensione, Disperazione, Solitudine, Rimpianto, Religiosità, Speranza, Percezione della vita; momenti analitico-psicologici che si susseguono in un crescendo incalzante. Un climax di grande impatto emotivo. Un diacronico andare coinvolgente per la sua portata umana trasversale e verticale che da soggettivo si fa oggettivo e universalmente partecipato.
Il vento, l’arcobaleno, la farfalla, la coccinella, lo stelo verde e sottile, la formica, le spine… non sono certo citazioni zoomorfe o naturistiche per puro gusto di arcadico ozio letterario, ma riferimenti lineari, emblematici, vòlti a concretizzare sentimenti e ri/sentimenti che, decantati in animo, si agitano per rendersi vivi. Per moltiplicarsi in un linguaggio di autoptica caratura con innesti di solida tenuta allegorica. Tante le analogie e tutte di alto spessore panico-allusivo:
“E’ un fico d’india
il mio cuore.
Roseo, succoso,
chiama, invita, tenta.
Spine,
innumerevoli e invisibili,
lo ricoprono.
Le mani riempirtene potresti…
o delle altre lasciarvene!” (Fico d’India).
E tante le malignità e le incomprensioni. Il genere umano se ne alimenta, ne fa sostanza vitale. E quando ne è sazio, cosa rara, va in cerca di nuove prede per soddisfare i suoi obliqui bisogni:
“(…)
Visi
una volta d'amore,
da oscuri livori trasformati
nel grembo d’incomprensioni
assurde figlie del tempo” (Maschere).
“(…)
Ma streghe consenzienti sono
le vergini fanciulle
che al ben noto gioco stanno” (Elogio della mia ingenuità).
Sono così tante queste streghe che è facile cadere in disperazione per un’anima fragile, sensibile, umanamente incline a dire in poesia i suoi palpiti esistenziali. Umanamente disorientata, annichilita da così tanto tradimento:
“(…)
Cadendo,
frantumata s’è la luna.
Frammenti d’argento
lentamente nel mare affondando,
bagliori sempre più fiochi emettevano,
disperati ultimi rantoli.
Poi il nulla.
Sempre più buia la mia notte” (Sempre più buia la mia notte).
Sì!, sembra proprio che il mondo ci crolli addosso, che il cielo frani, e che le stelle rotolino nei dirupi. Dov’è allora l’amore? Quell’amore che “il tenero germoglio come serra assolata ha protetto"?
“(…)
Come acqua di cascata
in gocciole di nebbia muta,
così alfine s'è dissolto” (Dov’è).
Conclusioni amare quelle a cui perviene la poetessa in un’enfasi quasi liberatoria:
“Vetri infranti e schegge
custodisco,
d'ogni colore
d'ogni dimensione
aguzzi
e come rasoi taglienti.
Di cocci
è disseminata la mia strada (…)” (Schegge e cocci),
sempre più convinta che è illusione sentirsi “smagliante farfalla in verdissimi prati tra fiori leggiadra”:
“(…)
Bruco eri
Bruco sei
Bruco rimarrai.
Per te,
nessuna metamorfosi” (Nessuna metamorfosi).
È tempo, allora, di ritrarsi, di escludersi da tutto ciò che sottrae, che inganna, che promette e non concede, che preda. Da tutto ciò che rende oscuro anche il punto luce più brillante. Che rende “suono di gong ogni fruscio”:
“In questo silenzio
che smisura
è ululato di vento
anche il respiro” (Silenzio),
che rende “assordante il silenzio”:
“Il frastuono ha del gong tibetano.
Sussurri, bisbigli
Stormire di fronde
Pianti e sbadigli
Infrangersi d’onde
Urla, frastuono
Sommessi vagiti
Boati di tuono
Festosi garriti (…)” (Assordante il silenzio).
La natura stessa si fa ostica per accompagnare la Nostra nel suo canto di tristezza e disillusione:
“Come formica
otto volte il mio peso
trasporto.
Da sempre.
Pendii e tronchi altissimi scalo.
Rocce e deserti attraverso.
Acqua e fuoco m'insidiano (…)” (Formica solitaria).
Sembra quasi che la poetessa scivoli in un pessimismo direi cosmico, in un pessimismo che da personale si trasformi in una visione negativa di tutto l’universo o di ogni rapporto umano, tante le smagliature del suo memoriale. Tante le pene sofferte per la sua ingenuità, anche, di voler vedere il bene in ogni dove. E la stessa natura si piega al volere del canto, facendosi compagna e assidua lettrice degli stati d’animo che l’hanno ispirato. Forse perché c’è il rimpianto di una gioia vissuta, c’è il ricordo di un giorno felice; il fatto sta che tutto questo contribuisce ad acuire il sentimento di precarietà dell’essere e dell’’esistere. Degli inganni del tempus fugit e della sfera di cristallo. Delle sue promesse cocciutamente non mantenute. Forse è proprio questo il motivo per cui la Nostra affida tutta se stessa alla poesia. È ad essa che si concede. Ed è in essa che crede. È l’unica che non la può tradire. Ed è nel suo potere che vede la possibilità di tramandare oltre l’umano una storia in credito di giustizia e di amore. Anche perché non ha “una casa ove venire con timoni e carte nautiche”, ed è “straniera in un presente a cui non appartiene più”:
“Non ho una lapide A mio padre
ove portare fiori
in luogo di cioccolatini
e riunire con nodi
ora di lacrime
ora di sorrisi
i fili d'un vissuto nostro.
Non ho una casa
ove venire
con timoni e carte nautiche,
testimonianze
d'unica nostra esclusiva
lontananza.
Sono straniera in un presente
a cui non appartengo più.
Ho solo la tua ombra
oggi accanto a me.
A lei,
i miei affettuosi auguri” (Festa del papà).
Amare confessioni, ritorni di memoria che hanno lasciato segni, “lame di luce nell’animo a frugare”:
“Quando il gallo cantò A mia madre
la prima volta,
drappi oscuri
velavano la stanza.
(…)
Al terzo canto,
via eri già andata
un'altra volta.
Lame di luce,
nell'animo a frugare...” (Sogno all’alba).
Ma la poetessa sa reagire a questo senso di negatività, a questo stato di disorientamento nei confronti di chi l’ha tradita, e di chi ha giocato sulla sua pelle; perché sa amare, perché la sua vita è zeppa di valori, perché crede nei rapporti umani, e nelle meraviglie del cielo, del mare e della terra; nella ricchezza della vera amicizia; nell’elevazione spirituale; e sa che “Inciampa talvolta il pastore./ La testa chinata,/ lo sguardo sui sassi,/ della cometa perde la guida.// E’ sempre lì la capanna…// E giuntovi lacero stanco e bagnato,/ i doni con mani ferite porgendo/ al bimbo radioso che attende,/ la ragione al suo andare/ trova infine il pastore” (Verso la capanna); e che “E' ancora lì/ la Stella Polare” (Stella Polare); e che persino nella sua cagnolina è incisa l’impronta divina: “Stupita/ anche in te contemplo/ nitida/ l'impronta del Divino” (Anche in te). Quanta religiosità in questi versi! In queste poesie che dilatano l’animo di Ester fino ai raggi del Supremo! Una religiosità che trova l’acme in una preghiera di grande resa lirica; dove la natura ha ancora una parte di primo piano, e dove l’anima si distende fino a farsi più quieta, toccando pointes di notevole intensità spiritualmente umana:
“Foglia passata sono,
ad un picciolo
ad ogni vento più debole.
Ha toni ancora
caldi il marrone
ma è ricordo di passate stagioni
il verde brillante.
Dona linfa vitale
a germogli teneri, in boccio
ché le piccole foglie
a fatica si schiudono.
Dona loro l’acqua
a me destinata.
Lascia che fertile humus
ora diventi” (Preghiera).
È qui che il memoriale si fa “verde brillante”. È qui quello sprazzo di felicità che ancora vive in seno ad Ester. Ed è a quel giorno, a quel luogo, a quel ricordo che vuole restare ancorata per continuare a credere alla vita. Una preghiera quasi francescana, pregna di umiltà, risolta in una metafora che fa dei germogli e delle foglie un altare su cui immolare l’anima per una speranza: e c’è alfine questa speranza. È nel vaso di Pandora della poetessa. Ed è quella di poter volare almeno un giorno trasformandosi in farfalla:
“(…)
Da crisalide in farfalla
mi trasformerò
per volare almeno un giorno” (Per volare almeno un giorno),
è quella di abbracciare l’infinito sapore del mare, l’azzurrino del suo respiro; di viverlo a pieno, perché è lì che trova pace, è lì che può azzardare sguardi oltre le vicende della storia umana:
“(…)
E il mare...
come olio liscio,
increspato appena,
da marosi sconvolto,
grigio, verde, azzurrissimo....
Non è mai a se stesso uguale
il mare” (Zavorra).
“Una folata di vita
ho respirato.
Me l’ha portata il maestrale
di maggio.
D’improvviso,
ne ho sentito il profumo,
l’alito fresco sulla pelle spenta.
Forse,
muterò il lamento in canto” (Il profumo del maestrale).
Sì!, c’è questa speranza di poter vivere ancora, “godendo di notti senza luna”:
“(…)
Ch’io viva
godendo
di notti senza luna.
Ch’io viva
fremendo
allo schiaffo del maestrale.
Ch’io viva
apprezzando
il volo basso dei pipistrelli” (Canto alla vita, nonostante).
Un crescendo in cui la Nostra sembra uscire da quella visione negativa dell’universo umano per vedere spiragli di luce a illuminare una folata di vita.Ma cosa è alfine questa misteriosa avventura. Questo impegnativo compito che a noi è toccato. Cosa è per la poetessa. Col solito ricorso ad immagini di un panismo ben articolato e poeticamente rielaborato, l’autrice ci offre uno schizzo fugace ed emblematicamente succoso di filosofia eraclitea sul suo dipanarsi.
“(…)
Tra ulivi da spasmi contorti,
macchie rosa,
sprazzi d’effimera gioia.
Corvi neri sui campi
beccano avanzi d’amore.
Muretti a secco sull’avara terra,
tracce di forza e tenacia.
Alla stazione,
forse,
un abbraccio di fine corsa” (Dal finestrino la vita).
Sì!, è quell’abbraccio che alfine colpisce e chiude il “poema”. “Un abbraccio di fine corsa”, ma pur sempre un abbraccio all’esistere, al suo corso, a quello che è stato nel bene e nel male. Un abbraccio a questo meraviglioso dono che fra inganni, tormenti, illusioni, delusioni, speranze e piccole gioie, ma pur sempre gioie, dono resta. Un dono di cui tener conto per la sua sacralità. Un dono da sfiocchettare con delicatezza e mantenere con noi il più possibile fuori dalle intemperie, e dal logorio del tempo. Il cui fine un approdo; positivo; di rinascita. E come direbbe il poeta: “La vita è degna di essere vissuta anche solo per la memoria della luce di una stella”.
“Così i giorni della vita,
identici
sfuggono tra le dita.
Benvenuti frulli d'ali,
nidi e pigolii.
Ché i giorni,
da fitta nebbia
resi indistinguibili,
non siano solo
d'albe e di tramonti
sequenze ineludibili” (Tegole).
Nazario Pardini
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