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Mario Manfio
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Note biografiche

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Mario Manfio ritratto accanto al busto di V. Giotti, da lui modellato.

 

Mario Manfio, nato a Trieste, il 25 marzo 1938, ha dedicato gran parte della vita al culto del Bello.   Ha seguito studi classici ed è stato iscritto alla Facoltà di Giurisprudenza prima, di Lettere Classiche poi, ma ha abbandonato il tutto per la convinzione – fallace – di poter far conoscere il suo nome (anche senza titoli accademici) a tanta gente. Per il canto (registro di tenore lirico spinto-drammatico) sarà allievo di vari maestri a Trieste e giungerà infine – tardi – a Marcello e Mario Del Monaco. Nel frattempo ha affrontato l’esame di Abilitazione Magistrale ed ha iniziato ad insegnare in una scuola privata italiano, latino e greco. È pure pittore e scultore, citato nei Dizionari degli Artisti Triestini, ed un suo busto di Virgilio Giotti è collocato nella scuola intitolata al poeta. Ha al suo attivo numerosissimi concerti anche fuori Trieste. Ha recitato in dialetto e in lingua, anche con ruoli da protagonista, in varie compagnie amatoriali; ha condotto per più anni assieme con la moglie una seguitissima trasmissione notturna in diretta da una radio privata. Ha pubblicato “Canzone senza musica” (Clinamen, Fi, 2002) e “Tonalità minore” (Ibiskos, Empoli, 2005); l’Ist. Giuliano di Storia, Cult. e Documentazione ha pubblicato “’Sto strofal ga fato un remitur” (=Questo sventato ha fatto una gran confusione), libriccino che, in prosa e in lingua, esamina termini dialettali desueti; l’ultimissima fatica è “Cantata per voce sola” (Ibiskos Editrice Risolo – minimal Poesia – 2008). È presente in varie antologie. 

 

Note critiche 

 

Per la sua preferenza nella scelta del dialetto triestino, sarebbe semplicistico annoverare Mario Manfio esclusivamente nella schiera dei poeti dialettali, perché, così facendo, si rischierebbe di perdere di vista l’autenticità di una poetica che, da personale, sa elevarsi all’universale, e che trova congeniale esprimersi nella lingua degli antenati, sentendola vicina alla spontaneità del sentire.

In effetti l’autore giuliano conosce bene l’arte poetica, tanto che le sue liriche sono strutturate sempre in modo adeguato e con proprietà ritmica e aderenza al contenuto; sa destreggiarsi con agilità nelle trappole dell’adesione tra significante e significato, così da ottenere ottimi risultati espressivi; sa conciliare la serietà della sua ispirazione con la simpatia accattivante delle sue parole. Insomma, Mario Manfio è poeta vero, esperto ed abile, ma soprattutto è un poeta sincero, che nulla nasconde al lettore, limitandosi a velare gli elementi troppo drammatici con la luce di un sorriso, magari sfociando nello scherzo giocoso.

Forse, anche in questo, è agevolato dal dialetto, ch’egli usa come lingua vera e propria, e al quale sa conferire un’ottima musicalità: il triestino di Manfio diviene vicenda espressiva e, contemporaneamente, vicenda esistenziale, poiché la sua appartenenza intima ed affettiva viene dichiarata con assoluta franchezza.

 

 

Recensioni

 

“«La poesia non è fatta di queste lettere che pianto come chiodi, ma del bianco che resta sulla carta»: queste parole di Paul Claudel sembrano scritte per Mario Manfio. Il poeta infatti, versificando i fatti della vita, le sensazioni, le passioni, le riflessioni e i sentimenti con parole limpide e chiare, lascia trasparire dal gioco del chiaroscuro delle pagine rivelazioni interiorizzate che egli ritiene personali ma che il lettore riconosce come proprie. E toccare il cuore e la mente dei lettori significa fare poesia.

... il poeta considera la sua esperienza esistenziale con la lucidità della realtà presente comparata all’esperienza degli anni trascorsi. E lo fa con una malinconia velata di rimpianto che però mai ripiega su se stessa in una sterile visione nostalgica. Egli accetta la vita che ha avuto, riconoscendo di avere ricevuto tanto, anche se non proprio tutto quello che da giovane aveva sognato. Questa logica che permea tutta la silloge, dalla quale sprizza spesso un vivo senso dell’humor che la rende particolarmente godibile e nello stessa tempo positiva e concreta, dotata com’è anche di una forte carlca di ottimismo. Ed è proprio questo che dà rilievo a ogni lirica, pure in quelle più dolenti che parlano di persone care e di affetti scomparsi.”

 

Gabriella Semacchi Glubich – Prefazione a “Cantata per voce sola” – Ibiskos Editrice Risolo 2008

 

  

Letture  

 

Al mio maestro delle elementari  

“La vita senza la musica sarebbe un errore” (Nietzsche)

  

Nono Francesco, ‘desso che de tanti
ani son deventà nono anca mi,
forsi posso ciamarte con ‘sto nome
e darta anca del ti.
            Xe tanto tempo za che te riposi
là, in cimitero a Muia, e te pensavo propio stamatina,
mentre iero a trovar ‘n’altra maestra
a Sant’Ana. Co ti te ieri vivo,
visto che mi studiavo in seminario,
te disevi che deventado papa
mi saria, se gavessi studià storia;
se storia e giografia mi no studiavo,
sarìa restà paraco de campagna.
            Forsi ti, quela volta, massa stima
te gavevi del tuo vecio scolaro...
            ‘Desso mi scrivo versi, publicado
go un par de libri, ma... fato cariera
mi no go, nè de prete
(che no son deventado),
nè de laico... Ghe xe qualche persona
che me conossi e, forsi, la me stima
pei versi, o per i quadri, o pei acuti,
ma sicuro no posso dir che son
‘na persona importante.
            Forsi ‘desso no son ‘ssai più importante
de quando ti te me ciamavi, in classe,
a scriver la lavagna tuta piena
de verbi transitivi e intransitivi,
o quando, in cesa, me diseva: “Mario,
- don Antonio – intona ti quel canto
che disi ‘Ave, Maria, di grazia fiore’.”
            Quela volta, co mi dopravo ‘l ‘lei’
per parlarte e te disevo sempre
‘signor maestro’, gavevo davanti
tuto ‘l futuro... ‘desso go ‘l passato
drio dele spale e, se me volto un poco,
vedo de no ‘ver fato quasi gnente
e, con tuto ‘l rispeto che continuo
per ti a sentir cola riconossenza
per tuto quel che te me ga ti dado,
devo dir: “No xe stà perché studiado
no go la storia, né la giografia...
No so dirte perché... forsi mancado
me ga ‘l tuo afeto, sconto drio de un strato
de burbera severità, che alora
iera normale. Scusime se ogi
go volù darte ‘l ‘ti’, come se stado
fussi tuo pari, perché deventado

 

 

Nonno Francesco, ora che da tanti anni sono diventato nonno anch’io, forse posso chiamarti con questo nome e darti anche il tu. È tanto tempo già che tu riposi là, nel cimitero di Muggia, e ti pensavo proprio questa mattina, mentre ero a visitare un’altra maestra a Sant’Anna.  Quando tu eri vivo, visto che io studiavo in seminario, dicevi che sarei diventato papa, se avessi studiato la storia; se non studiavo la storia e la geografia, sarei rimasto parroco di campagna. Forse tu, quella volta, avevi troppa stima del tuo vecchio scolaro... Ora io scrivo versi, ho pubblicato un paio di libri, ma... non ho fatto carriera, né da prete (non lo sono diventato), né da laico... C’è qualche persona che mi conosce e, forse, mi stima per i versi, o per i quadri, o per gli acuti, ma certamente non posso dire che sono una persona importante. Forse ora non sono molto più importante di quando tu mi chiamavi, in classe, a scrivere la lavagna intera di verbi transitivi e intransitivi, o di quando, in chiesa, don Antonio mi diceva: “Mario, intona tu quel canto che dice: ‘Ave Maria, di grazia fiore?.”quella volta, quando usavo il lei per parlarti e ti dicevo sempre ‘signor maestro’, avevo davanti tutto il futuro..., ora ho il passato dietro le spalle e, se mi volto un poco,vedo di non aver fatto quasi niente e, con tutto il rispetto che continuo a sentire per te con la riconoscenza per tutto quello che tu mi hai dato, devo dire: “Non è stato perché non ho studiato la storia né la geografia... Non so dirti perché... forse mi è mancato il tuo affetto, nascosto dietro uno strato di burbera severità, che allora era normale. Scusami se oggi ho voluto darti il ‘tu’, come se fossi stato tuo pari, perché sono diventato nonno e ho insegnato per anni”. 

  

Bozzetto

El sol, che xe za basso al’orizonte,
el pitura de rosa le fazade
dele case più alte; drio del monte
par vignir fora una nuvola, rosa
anca ela, de un rosa diferente,
con un fià de naranza: dopopranzo
de un giorno che xe stado sì seren,
ma frescheto, za squasi de inverno...
            Xe l’aria pizighina e, a poco a poco,
la nuvola se disfa e ga color
diferente quei sbrindoli che nassi:
controluce i deventa squasi neri
e i risalta sul ciel color zalo-oro.
            I rami, che ga ‘ncora su impicade
quatro foiete, i xe anca lori neri
contro ‘l ciel, i xe come un ricamo
con un disegno strambo, no finido.

Il sole, ch’è già basso all’orizzonte, dipinge di rosa le facciate delle case più alte; dietro il monte sembra uscire una nuvola, rosa anch’essa, di un rosa diverso, con un po’ d’arancione: pomeriggio di un giorno ch’è stato sì sereno, ma freschetto, già quasi d’inverno... L’aria è frizzante e, a poco a poco, la nuvola si stempera e i brandelli che ne nascono hanno un colore diverso: in controluce diventano quasi neri e risaltano sul cielo color giallo-oro. I rami, che hanno ancora appese su quattro foglioline, sono anch’essi neri contro il cielo, sono come un ricamo dal disegno strambo, non finito.  

  

Piazza del Perugino
 
Quando che iero picio, iera in piaza
(digo, logico: piaza Perugino)
le barache de fruti e de verdura:
tanti colori, done che vendeva
e comprava, careti che portava
platò e cassete, vose che zigava
decantando la propia mercanzia.
            Ale fontane i muli se fazeva
grande schizade per farse dispeti.
            Son passà l’altro giorno: ‘desso i fruti
se li compra nei vari boteghini
o adiritura nei supermercati,
cussì la piaza la xe deventada
el plafon de un parchegio soteraneo
(ma no go visto ‘ndarghe nissun auto)
e ‘l dovessi servir pei fioi che zoghi
(ma gnanca fioi no go visto zogar)...
pareva uno spazio morto quela piaza.
            Le robe – za se sa – le va cussì:
iera più bel zogar in campagneta
o per la strada, co no iera tanti
auti che te podessi mastruzar...
            Xe propio che son deventado vecio!

Quand’ero piccolo, c’erano in piazza (dico logicamente: piazza Perugino) le baracche di frutta e verdura: tanti colori, donne che vendevano e comperavano, carretti che portavano plateau e cassette, voci che gridavano decantando la propria mercanzia. Alle fontane i ragazzini si spruzzavano per farsi dispetti. Sono passato di là l’altro giorno: ora la frutta si compera nei vari negozietti di verdure o nei supermercati, così la piazza è diventata il soffitto di un  parcheggio sotterraneo (ma non ho visto entrarci nessuna automobile) e dovrebbe servire perché ci giochino i bambini (ma non ho visto neppure bambini che giocassero)... quella piazza sembrava uno spazio morto. Le cose – già si sa – vanno così: era più bello giocare sui prati o per la strada, quando non c’erano tante automobili che potessero schiacciarti...  è proprio che sono diventato vecchio!  

 

Cercare

Go passado la vita
zercando una porta, una strada,
che rivar me fazessi là, indove
fussi vivi, reali i mii sogni...
e sbatù tante volte go ‘l muso
contro quei che pareva portoni
e che iera inveze miragi.
Forsi, voi gavessi ragion,
se disessi che iera un fià grave
‘sto zercar senza mai trovar gnente...
Per de sora però mi gavevo,
come un faro, ‘na granda speranza,
squasi come la stela cometa
che portado a Betleme ga i Magi...
‘Desso i altri me credi tranquilo:
“Finalmente – i pensa – capido
el ga che la speranza xe bela,
ma de raro la sa trasformarse
in qualcossa che no sia ilusion”.
Mi inveze rimpianzo quei sogni,
perchè, fin che strussiavo, zercavo,
d’esser vivo mi iero sicuro
e gavevo davanti un doman...
‘Desso che mi no go più speranze,
xe la vita ridota a metà
e sperar posso solo che un giorno
sui mii ossi un fior vegni a pozar                                                              
qualchedun che me ga volù ben. 

 

Ho trascorso la vita cercando una porta, una strada, che mi facessero arrivare là dove fossero vivi, reali i miei sogni... ed ho sbattuto tante volte la faccia contro quelli che sembravano portoni e ch’erano invece miraggi.   Forse, voi avreste ragione, se diceste ch’era un po’ penoso questo cercare senza trovare mai nulla...   Sopra di me però io avevo, come un faro, una grande speranza, quasi come la stella cometa che guidò a Betlemme i Magi...    Ora gli altri mi credono tranquillo:  “Finalmente – pensano – ha capito che la speranza è bella, ma raramente sa trasformarsi in qualcosa che non sia illusione”.   Io invece rimpiango quei sogni, le speranze le... porte in faccia, perché finché penavo, cercavo, ero certo di esser vivo e avevo davanti un domani...    Ora che non ho più speranze, la mia vita è ridotta a metà e posso sperare soltanto che un giorno qualcuno che m’ha voluto bene venga a posare sulle mie ossa un fiore.

 

Foglie morte 

Ilusioni e speranze deventade 
le xe come le foie che, in autuno,
se ingruma ‘torno del pie dela pianta.
Quel’albero son mi, deventà storto
pel tropo vento che ghe ga sufiado
per sora, senza darghe mai riposo.
Ma quele foie, che ‘desso xe morte,
verdi le iera stade e de speranze
piene, tanto che credeva la pianta
che ‘ssai presto se gavaria podudo
ingrumar fruti in granda quantità.
Po, le robe xe ‘ndade a modo suo...
‘Desso, coi rami nudi verso ‘l ciel,
l’albero pol spetar solo la fine:
sarà ‘l fulmine che lo spacarà,
o la manera de chi ga bisogno
de far fogo per cusinarse ‘l pan
o scaldarse, de inverno, co xe fredo?

Illusioni e speranze sono diventate come le foglie che, in autunno, si raccolgono attorno al piede della pianta.  Quell’albero sono io, diventato storto per il troppo vento che gli ha soffiato sopra, senza dargli mai riposo.   Ma quelle foglie, che adesso sono morte, erano state verdi e piene di speranze, tanto che la pianta credeva che assai presto si sarebbero potuti raccogliere frutti in gran quantità.   Poi, le cose sono andate a loro modo...   Ora, con i rami nudi verso il cielo, l’albero può solo attendere la fine: sarà il fulmine che lo spaccherà o l’accetta di chi ha bisogno di accendere il fuoco per cuocersi il pane o riscaldarsi, d’inverno, quando fa freddo?

  

Giovinezza, dove sei?
 
Sempre più si assottiglian le speranze,
mentre via scorre il tempo della vita.
Una volta sognavo cose grandi:
il successo, la fama e ciò che essi
si tiran dietro; ora, passati gli anni,
quelle speranze m’hanno abbandonato;
sperare posso adesso solo cose
“di tutti i giorni”: di vivere ancora,
di non finir la vita in un ospizio,
di non avere malattie che rendan
penoso il viver mio, che mi costringan
su di un letto o una sedia a rotelle...
di avere qualche soldo nelle tasche
per soddisfare i miei bisogni primi...
di esser capace ancor di mescolare
i colori da metter sulla tela...
Giovinezza coi sogni, dove sei?

 

Inerzia
 
Gavemo fato insieme tanta strada,
po ti, stanca, te ga volù fermarte...
‘desso son solo che camino ‘vanti,
ma no so dir dove che stago ‘ndando
e, più de tuto, quando rivarò.
Se podessi pensar che sia più facile
far piani per un solo, per se stessi,
inveze no xe vero, perchè manca
un incentivo che te sburti ‘vanti...
te son sempre portado a rimandar,
a spetar che le robe se decidi
de sole, senza far ti la fadiga
de far progeti e po de realizarli...
Cussì via scampa ‘l tempo, ora per ora,
giorno per giorno... e no sucedi gnente.
Ma ‘l giorno che sucedarà qualcossa
forsi sarà el giorno conclusivo:
bisognarà partir per el gran viagio                
senza ‘ver trovà ‘l tempo per prontarse.

Abbiamo percorso assieme tanta strada, poi tu, stanca, hai voluto fermarti... ora sono solo che continuo il cammino, ma non so dire dove stia andando e, soprattutto, quando arriverò.    Si potrebbe pensare che sia più facile fare progetti per uno solo, per se stessi, invece non è vero, perché manca un incentivo che ti spinga avanti... sei sempre portato a rimandare, ad aspettare che le cose si decidano da sole, senza far tu la fatica di far progetti e poi di realizzarli.  Così fugge il tempo, ora per ora, giorno per giorno... e non succede nulla.   Ma il giorno che succederà qualcosa forse sarà il giorno conclusivo: bisognerà partire per il grande viaggio, senza aver trovato il tempo per prepararsi. 

 

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15 maggio 2012

Una nuova raccolta poetica di Mario Manfio