Il libro del nostro Socio Fabrizio Voltolini
HY-HOON
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HY-HOON
Prefazione di Flavio Casali
“… vedi, io son delicato come il fiore del melo e più pacifico di un agnello neonato; ma ferro, pietra ed esca, insidiosi si celano nel mio spirito turbato” Stefan George
L’autore di queste righe ci tiene a confessare – preliminarmente all’esposizione dell’indagine critica – tutta la sua sfacciata compiacenza tanto verso lo scrittore Fabrizio Voltolini quanto verso il suo romanzo che, anche nel nobile raglio che lo titola, compendia uno stile narrativo di rara godibilità e purezza compositiva, intrigante per ricerca stilistica, stimolante per ricchezza di introspezione, per intima connessione, per compattezza. Un’opera piena, inesorabile seppure delicata, lucida nella sua raffinata costruzione eppure toccante nel sentimento, nel tratteggiare gli spicchi di un’ umanità nota …, la nostra. Parole di lode, anticipate frettolosamente nella prefazione, anche se concepite come epilogo, che vogliono non tanto preparare il lettore a un romanzo davvero particolare, quanto fornire all’autore, al suo animo commosso e tormentato, l’opportunità di tornare in sé, ovvero in noi, tagliando il cordone vitale che ha alimentato i suoi personaggi.
Lo svolgimento del triduo onoterapico ruota intorno ad una famiglia che si trova di fronte ad un drammatico bivio: lo sgretolamento seguito alla morte della madre-custode degli affetti, dei valori universali della famiglia, del focolare mai spento, della speranza del ritorno del primogenito, trepidamente atteso e concretizzatosi per il suo ultimo viaggio; o il rinnovo di quei legami e di quelle tradizioni “purificate” da un rapporto rinnovato tra fratello e sorella, esclusivo ed unico, particolare e diverso rispetto al fratello più giovane di entrambi, incompreso e fragile, mai pienamente integrato nel ruolo familiare e, in verità, in nessun ruolo. Quella morte di madre diventa il palco-patibolo, celebrazione-gogna dove va in scena il dramma dei protagonisti che, a turno, dipingono ed espongono le loro colpe, le loro conquiste, declinano le liturgie della propria autocommiserazione od esaltazione, che comunque li divora dentro, lasciando ai ricordi e ai momenti di condivisione comune – i pasti, l’incontro dal notaio – le residue energie vitali, prima di raggiungere, con incestuosa ma delicata foga, la catarsi finale. La Vita, la sua, la nostra – anche se negheremo infastiditi – è la “fonte sacra” cui attinge Voltolini, ultimo aedo di una tragedia dal sapore classico, mai banale, mai scontata, declinata con linguaggio e perizia accurati, senza appesantire, senza stancare ma anzi, e semmai, “provocare”, nel lettore, una crisi, un duello tra la dimensione spirituale e quella intellettuale, lasciando uno spazio di sospetto e deciso, notevole, disprezzo per quella pratica e praticona che accomuna cognato e fratello minore-minorato. Nel rapporto con la sorella e tra la sorella e il marito-cognato si consumano e si elidono due storie parallele: quella della seduzione, ma senza le armi convenzionali della seduzione, tra due fratelli che si stimano e si amano nella purezza e reciproca presunta indipendenza e quella di una caduta, senza caduta, tra due coniugi che si celano la sterilità di lei e le scappatelle di lui, dove il marito è il diavolo, cioè il vero cornuto finale, saga nella saga che sottilmente permette all’autore di configurare il suo romanzo come un atto di accusa, senza appello, nei confronti del matrimonio. Eppure tanto il protagonista, quanto il fratello/inverso dimostrano di capire che il matrimonio sarebbe (stata) l’unica possibilità di fuoriuscita da una solitudine faustiana consumata nell’opacità di un mondo ostile, anche nei sentimenti; un mondo dal quale la trasparenza è banalità, nel quale dunque domina il male, il malessere di essere uomo; un mondo dove gli attori-scrittori-lettori vengono raggiunti, comunque, dalla consapevolezza delle proprie azioni e dei propri moventi e dove, in misura illimitata, hanno (abbiamo) il dono – per Voltolini la dannazione – di intravvedere, attraverso l’opacità, di intuire la propria malvagità, di sapere in anticipo ciò che avverrà. Ma Lorenzo, il protagonista, fa di più; uscito, ma mai del tutto, dalla sua casa-chiesa, agnostica seppure sacra, grembo e guscio materno, trova la sua innaturale, ma perfetta, corrispondenza d’amore con Lucrezia, sorella-moglie-complice di un’unione, la più vergognosa, deprecata e perseguitata dalla storia dell’umanità. Lorenzo è psichiatra, Lucrezia filosofa: il loro atto non è istinto, ma piena consapevolezza. Un amore che non salva i singoli protagonisti, condannati a priori dalla morte della madre-madonna, ma salva e redime la coppia, a suo modo perfetta, con un “sacrificio” rituale necessario. Un sacrificio che costa al lettore attento che voglia misurarsi, senza scontrarsi, con una parabola “umana, troppo umana” messa magistralmente, anzi imperiosamente, a punto da Voltolini per rappresentare la sua ineluttabile vocazione a distruggere l’anima e la coscienza degli altri almeno tanto e quanto la sua. Nulla di penosamente drammatico s’intende, ma tutto ben narrato, ben calibrato con maniacale, assoluta esattezza psicologica. Spietato e cruciale non sono il movimento né la dinamica, non lo sviluppo né le azioni: tutto ciò è previsto e narrato. Cruciale è il nodo psichico – questo raglio che ricorre come i peana dei cori greci – che unisce in figure diverse i protagonisti di un adulterio borghese che nella bara, insieme alla madre tutelare, seppellirà gli ultimi nobili valori, prima che finiscano traditi dalla volgarità di una immeritata eredità. Lorenzo è l’archetipo prigioniero del passato che ha tentato un’impossibile evasione ed è probabile che, dopo aver camminato fra tante macerie, pubbliche e private, coltivasse un’irreparabile sentimento di autodistruzione solo sopito nel funesto triduo familiare. Un romanzo di assoluto realismo e quasi pedissequo autobiografismo, con un’attenzione costante, a tratti morbosa, agli aspetti non solo psicologici, ma pure patologici della condotta umana, immortalata dall’autore nelle storie e nei personaggi raccontati che arrivano, come Lorenzo, a trasfigurarsi e perdere l’equilibrio inebriandosi di ricordi senza la minima riserva mentale, lasciandosi trascinare nel fondo del gorgo, condannandosi inappellabilmente allo stravolgimento di affetti, relazioni, salute, lavoro, pronto a combattere il tabù dei tabù per varcare, degno compagno di Ulisse, le “Colonne d’Ercole” del nulla. Perché nulla è nulla e tutto è nulla.
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