Note biografiche
Marinella Rosin Beltramini è nata nel 1941 da genitori veneti, a Panicale (PG) e in Umbria ha trascorso la sua adolescenza trasferendosi poi in Veneto. Diplomata all’Istituto Magistrale di Treviso, ha lavorato nel settore telefonico. Da anni vive a Pordenone con il marito. Da sempre ha espresso in versi le sue emozioni di vita, ma solo da pochi anni ha voluto condividerle con altri pubblicando le proprie poesie. Del 2002 è la prima raccolta di liriche "Dal Cadere delle Perle" Campanotto Editore, mentre nel 2011 è uscita la seconda raccolta "Alfabeto delle emozioni", Campanotto Editore, con la prefazione del prof. Giuseppe Raffaelli. I suoi racconti "marini" sono inseriti nelle varie edizioni della collana "Lignano ti racconto". Ha partecipato a numerosi concorsi ottenendo premi e riconoscimenti.
Note critiche
Pur spersonalizzando la voce narrante, si intuisce immediatamente la presenza dell’autrice nel personaggio da lei presentato nel racconto nostalgico e ricco di note di costume, riguardante il mondo contadino delle generazioni passate. Ambientato nel suo Friuli, rappresenta bene le abitudini delle donne e delle famiglie che vivevano del lavoro agricolo. Con grazia e molto sentimento, tenuto quasi segreto e manifestato in maniera schiva, la narrazione si svolge colma di suggestioni lievi e intense, che fanno rivivere momenti remoti come se fossero sempre attuali. Le poesie, invece, sono istantanee emozioni al sopravvenire di ricordi antichi e sempre toccanti.
Letture
A Versa
Una mano, un cuore e la terra rossa torna a cantare di uno, mille uomini. Pietre prendono vita, si animano, escono, colpiscono con storie vecchie o nuove i cuori di chi guarda. Ricordi lontani, ricordi vicini, vissuti, amati, sofferti. Ma si deve ancora cantare perché non spariscano nel fondo di pozzi scuri da dove non potranno più uscire e rivivere.
Questi versi sono legati a ricordi della guerra nel Carso.
Erano undici sul lago
Urlava il lago quella sera. Gusci leggeri di noce, vite esperte perdute, rompono ancora i sogni divenuti incubi profondi. Restasti tu, canuto ragazzo, che sul lago lasciasti il tuo sorriso.
Un lago amato portò via ad un compagno di scuola la sua infanzia con la morte del fratello.
Abu Ghraib
Atterrito il mondo grida; urlano i cadaveri, sorgendo dal cimitero di Harlinthon, di fronte all’uomo denudato della sua dignità. Gridano alla vista di prigionieri violati. Liberatori incarcerati nella loro non umanità. Urla l’uomo disilluso dalla libertà divenuta schiavitù.
Vecchia stazione
Lunghi fili d’erba difendono le mura della vecchia stazione. Nascondono gelosi segreti di pianti, grida, angosce. Un vento leggero li muove e subito si leva uno sparo, s’alza un grido di dodicenne stroncato nei suoi sogni. Risuonano lamenti di gioventù deluse, e volano nell’aria, come neve che copre il fango, parole graffiate su piccoli fogli. S’ode il sussurrar di donne che accolgono in petto la missione: narrare negli anni quelle ultime grida d’amore. Cessa il vento e il mondo continua a dormire.
Queste mie parole sono nate dal ricordo di alcune donne che hanno vissuto, ragazze o bambine, allora, l’ultima guerra e aiutavano, mettendo a rischio la propria vita, i soldati prigionieri a comunicare con le famiglie,tramite i bigliettini che loro gettavano giù dai treni che li trasportavano nei campi di prigionia.
La mia voce
Vorrei ritrovar la mia voce. L’ho persa seguendo cammini marini, o forse su vie di città sfolgoranti. È finita dietro illusioni o favole che sembravano vere narrate da voci diverse. Per me era limpido suono, il mio raccontare la vita. Musica che io solo ascoltavo, persa ora, tra spartiti scarabocchiati.
La poetessa, in questa lirica piena di pathos, fa della sua voce lo strumento per rappresentare le delusioni del cuore, l’armonia interiore che la guidava quando era in sintonia con se stessa. Questa voce che le serviva per raccontare la ricchezza della sua interiorità, ora pare tacere, ma rinasce evidentemente nei versi di una poesia malinconica, ma non abbattuta, lucida nell’analisi e ricca nel sentimento, una poesia che offre notevoli spunti di riflessione. Da Antologia “Città di Pontremoli” 2013
Solitudine
Solitudine è sostare tra mille persone, senza parole.
Solitudine è vedere illuminarsi un volto, ma non per te.
Occhi sorridenti quasi in adorazione, solo che non è per te quella ammirazione.
Solitudine è restare dove un mondo diverso non t’appartiene.
Solitudine è non capire le parole dette da chi non parla con te.
Iniziando quasi tutti i distici con la parola “solitudine”, la poetessa ottiene l’esito di ribadire il suo stato d’animo lacerato dal vuoto che sente intorno; unica eccezione la strofa centrale, in cui, però, lo sguardo adorante non rivolto a lei è ancor più motivo di rammarico, se non addirittura di frustrazione. Il tono è solo apparentemente distaccato, quasi l’autrice non volesse lasciarsi coinvolgere nel suo momento lirico, ma si sente chiaramente una sofferenza, pur tenuta a freno, che trova soluzione solo nella confessione poetica. Da Antologia “Città di Pontremoli” 2012
La stalla di Martina Forse il richiamo del cuculo o del gufo l’aveva costretta a lasciare il letto. Non era stata una buona notte, si chiedeva se veramente fosse riuscita a dormire. Quante volte si era girata e rigirata? Fatto sta che ora cominciava a non poterne più di quelle lenzuola. Il problema era come fare per uscire dal letto e scendere giù senza che uno o l’altra si svegliassero. Si, perché Martina dormiva della grossa, ma lei sapeva che se si fosse mossa avrebbe sentito il benché minimo rumore. Quando sarebbe salita con il caffè, senza dubbio avrebbe detto che era già sveglia da tanto e che l’aveva sentita alzarsi. Dire che aveva fatto una bella dormita era come venir meno al suo dovere di donna di casa. Già, perché una volta le brave donne si alzavano all’alba, accendevano la stufa, preparavano la colazione e, quando tutto era pronto, svegliavano i figli, li preparavano per la scuola e una volta accompagnati, iniziavano a sbrigare tutte quelle faccende in casa e fuori che facevano parte dei loro compiti. Abitudini queste che erano rimaste dentro di lei e, anche se ora non aveva un gran ché da fare e si alzava dopo tutti, non voleva ammettere che le piacesse restare a letto a poltrire sotto le coperte, specie d’inverno. Sandra, dal canto suo, aveva acquisito l’abitudine di svegliarsi presto. D’un tratto la chioccia aveva cominciato a lanciare il suo richiamo. Non era proprio chioccia, in quanto mancava un gallo, ma la “poverina” aveva la sensazione di esserlo. Già da qualche settimana passava quasi tutto il giorno accovacciata nel buchetto, che si era ricavata tra la paglia, e la vedevi che si gonfiava e sgonfiava le piume in continuazione. Stava dimagrendo tanto che era necessario farla uscire a forza e chiudere il cancelletto per costringerla a mangiare. Pensavano che tutta presa nel suo ruolo di futura madre non avrebbe sentito neanche lo stimolo a mangiare. Invece l’istinto di sopravvivenza la guidava senza bisogno del nostro intervento. Nel frattempo la luce faceva da messaggera al sorgere del sole. Veramente il cielo era coperto di nuvole. Quelle continue nuvole che si alternavano da giorni al sole. Chissà come sarebbe stata la giornata? Il canto degli uccelli si faceva sempre più intenso. Uscì nel cortile per dare da mangiare alle galline, perché non facessero rumore. Pensò per un’attimo che stava rifacendo quelle piccole azioni quotidiane che, per anni, erano appartenute a Martina, sua suocera. Avevano avuto delle vite molto diverse, si erano incrociate solo perché l’amore l’aveva portata a sposarne il figlio, eppure ora, dopo tanti anni, era come se la vita di Martina le appartenesse ed aveva fatte sue certe abitudini. Ora accudiva alle sue ultime due galline rimaste. Appena aveva aperta la porta, queste le si fecero incontro; sapevano, oramai, che avrebbe portato fuori i recipienti con il pane bagnato ed il mais macinato. Fino a qualche mese fa c’era solo una gallina, che era ciò che restava del pollaio ben popolato che Martina, negli anni d’oro della gioventù, era solita tenere. Poi avevano pensato di metterle vicino una compagna ed era stato un bene, perché la vecchia aveva ripreso il suo piglio ed era rinvigorita. Aveva addirittura ripreso a fare uova. Cosa vuol dire la compagnia, anche tra gli animali! Solo che ora la vecchia era diventata prepotente e la giovane doveva subire le sue angherie, come per esempio mangiare solo quando l’altra voleva. Era una continua lotta. Il problema era che, mentre c’era qualcuno nella casa, tutto andava bene, ma quando si lasciavano da sole, e questo succedeva per due o tre giorni la settimana, si rischiava di ritrovarla di nuovo magra, magra. Per prendere il mangiare per le galline, Sandra era andata in quella che una volta era stata la stalla. Ripensò al giorno prima, quando nel pomeriggio lei e Martina erano sedute all’ombra dei grossi pini nel cortile della casa. La suocera di solito era molto taciturna, non sprecava parole inutilmente, da brava friulana. Parlava solo lo stretto necessario. Erano famosi i suoi lunghi silenzi e quando Sandra le diceva: - Sarà bene che smetti di parlare, ci hai fatto una testa grossa così. - Lei rideva e diceva: - Ce àio di dì? - Quel pomeriggio, invece, si era messa a parlare e non finiva mai. Erano i ricordi che erano riemersi in troppi nella sua mente ed aveva quindi sentito il bisogno di farli uscire, dar sfogo a quel fiume di parole che giravano e rigiravano nella sua testa, sollecitate, forse, dalle voci dei cognati, che nel giardino accanto parlavano a voce alta. Guardava con occhi persi la porta della “stalla” ed era come se la rivedesse, nuova, popolata ancora dalle sue mucche. In quel pomeriggio la risentiva vivere dopo anni. Il suo sguardo andava verso il cancello, quasi sommerso dai grandi cespugli di oleandro. Una rosa superava il muretto ed in alto sembrava abbracciare i fiori, sempre rosa, dell’ oleandro all’interno del cortile. Accanto a questo, uno bianco si era sviluppato coprendo l’angolo, che il muretto delinea prima di attaccarsi alla costruzione bianca che ora funge da garage, ma una volta era il toglât. Dall’altro lato del cancello, una piccola vite di bacò si appoggia al muro del ciôt. Questo è un prolungamento basso della casa. Si appoggia ad essa ed ha due lati esterni con un muretto divisorio. Quasi due stanzette aperte, ricavate tra due muri ed un mezzo muretto. All’interno da un lato c’è un acquaio, dall’altro un mobiletto bianco con un marmo sopra, una piccola cassapanca da cucina smaltata e di fronte una stufa che fa ancora il suo dovere, quando viene fatta la salsa o quando, per carnevale, si friggono frittulis e crostui. Dove c’è l’acquaio, sospesa al muro, una mensola di legno aspetta che vengano appoggiati di nuovo i bidoni del latte, come una volta, quando al ritorno dalla latteria venivano lavati e messi ad asciugare sopra di essa. Tutto è vecchio e malandato, ma ancora funzionale.Accanto alla vite un altro oleandro rosa carico fa intreccio con un vecchio rosaio, che da maggio in avanti regala rose chiare, che in un giorno fioriscono e si spampano. Martina ripete sempre che era un piccolo getto, piantato chissà quando e lasciato là a crescere e fiorire. Sotto il rosaio, una bella di notte apre alla sera i suoi calici rossi e gialli. Alla base del muretto del ciôt una piccola aiuola delimitata un po’ disordinatamente da sassi è coperta da un cespuglio, che con le sue bacche rosse, ora quasi gialle, rallegra da dicembre quell’angolo di cortile. Una lunga porta di ferro aperta copre il lavandino e mostra la stanza che una volta era la stalla. Resta ancora la greppia, dove le mucche mangiavano, con attaccati al muro gli abbeveratoi. Le mucche, di solito tre ma talvolta anche di più, erano da un lato e i vitellini dall’altro. Sulla parete di fronte un quadretto di un santo protettore degli animali è ancora appeso di sghimbescio e minaccia di cadere da un momento all’altro. Accanto, un nido di rondine rotto dà all’insieme, se mai ce ne fosse bisogno, il senso dell’abbandono. Il passato è passato. Per noi forse, ma Martina quel pomeriggio il suo passato lo vedeva reale. La stalla era come una volta. Risuonava del muggito delle vacche che chiamavano per essere munte. Se le gambe non avessero avuto dentro quella profonda stanchezza, si sarebbe alzata e sarebbe andata dalle sue mucche che la stavano chiamando. Il luvri dolorante faceva alzare il muso e muggire per richiamare l’attenzione della padrona. Lei, come allora, si sarebbe messa il fazzoletto in testa, quello che teneva per la stalla, la vestaglia, una delle tante che teneva solo per mungere il latte, si sarebbe seduta sulla vecchia seggiolina ed avrebbe cominciato ad accarezzare quelle mammelle finché il latte fosse uscito a spruzzi, bianco, caldo e schiumoso. Di solito la Viola, la preferita, ne dava tanto sia al mattino che la sera. Dopo munte, si tranquillizzavano e riprendevano a ruminare, voltandosi ogni tanto a controllare i propri vitellini. Gli occhi di Martina sembravano coprirsi di un velo, quasi volesse estraniarsi dal presente per tornare con la mente a quegli anni che, anche se di sacrificio, erano pur sempre gli anni della sua giovinezza. Mentre ricordava, parlava e raccontava di quando, svegliata dai primi chiarori dell’aurora, si alzava piano, piano e scendeva in cucina. La prima cosa della giornata alla quale non rinunciava mai era il caffè. Le mucche potevano aspettare ancora un momento. Portava una tazzina al suo uomo, dopodiché, messi il fazzoletto in testa ed il grembiule della mungitura, entrava in stalla. Iniziavano così all’alba i suoi colloqui con le sue “bambine”, perché erano colloqui veri e propri. Alle sue parole sembrava che le mucche rispondessero con i loro muggiti quasi modulati. Le accarezzava, si sedeva accanto a loro e cominciava a mungerle. Dopo, con qualsiasi tempo e qualsiasi temperatura, prendeva la bicicletta ed arrivava fino alla latteria in paese. Là ad attendere lei e le altre donne c’era il casaro. Funzionava così, chi in gergo “avrebbe fatto il formaggio” era a “ricevere il latte”, controllava cioè il peso del latte che veniva portato in quel giorno, dopo aver pesato il proprio, così da sapere quante forme di formaggio sarebbero state di sua spettanza. Anche a lei capitava a volte di farlo ed allora era felice. Dopo i giorni di lavorazione, soddisfatta, caricava le nuove forme fresche sull’asse appoggiato alla bicicletta e le portava a casa. Erano il frutto di tutto il suo lavoro. Le ore passate a tenere in ordine la stalla, dar mangiare alle mucche, curarle se avevano qualche inconveniente, mungerle e pulirle, finalmente si trasformavano in quelle ruote bianche e profumate che avrebbero fatto bella mostra di sé sulle mensole in fila nel “camerino”. Questo era il sottoscala, luogo ideale sia per la temperatura che per la giusta aerazione che entrava da una piccola finestra. Martina si godeva la vista di quelle forme in fila. Le accarezzava, le ungeva, le puliva, stabiliva quante farne invecchiare per far formaggio stagionato e quali invece consumare subito. Alcune venivano vendute subito in latteria e con il denaro poteva provvedere a molte necessità della casa. Quel pomeriggio così prodigo di ricordi, parlava anche dei tempi più lontani quando quasi bambina andava a portare il latte munto dalle mucche della sua famiglia di origine. Quella era molto più grande. Allora era più un gioco, perché non c’era calcolo in quel latte che portava in latteria la sera. Era un’occasione per finire la giornata allegramente parlando con le amiche, guardare di nascosto i ragazzi e sorridere delle loro “bravure”. Martina parlava ed era come se componesse una poesia: Serade paesane I podins d’arìnt / a batevìn cuìntri la biciclete. / Sot sere, / el fantàt al tornave a ciàse / dut contènt e beât / La Viole / a veve dât tant lat. / In ta la plàce de glésie, / i giòvins a mateavin, / e la morosute a stave là in spiète. / Une cialade, une cimiade / e nùje plùì, / ma el sò cûr al jère in glòrie. (I secchi d’argento / Battevano contro la bicicletta. / Nella sera / Il ragazzino tornava a casa / Tutto contento e beato / La Viola aveva dato tanto latte. / Sulla piazza della chiesa / I giovanetti scherzavano / E la fidanzatina stava aspettando / Un’occhiata, una strizzatina d’occhio / E niente più / Ma il suo cuore era in paradiso.) Sandra immaginava che fossero proprio così quelle serate, specie di primavera, mentre Martina dipanava il filo dei suoi ricordi. Ora non esisteva più neanche la latteria, per quei pochi “stalòns” rimasti passavano i camioncini a ritirare il latte e neppure tutti i giorni. Lei continuava a raccontare, come se il passato fosse presente. Parlava di quando d’inverno, al ritorno dalla latteria, preparava il “giùf” con il latte tiepido, appena munto e la polentina di zucca preparata velocemente. Oramai certe cose le faceva quasi per abitudine. Ora nessuno amava più quel tipo di colazione al mattino, ma ciò non le impediva di prepararla per mezzogiorno al posto di un primo piatto. Bastava che le saltasse in testa l’idea e nonostante i suoi 91 anni si metteva a cucinare la zucca ed a fare il “giùf”; era una maniera anche questa di far rivivere certi anni, che anche se di sacrifici erano stati felici. - ‘O ài savùt di lavorà. Diceva ora, ripensando alla sua vita di contadina. Una vita che per anni aveva ruotato attorno a questa stalla che ora non c’era più e che lei continuava a sentire risuonare dei richiami delle sue mucche. Parlava di quella volta che la Viola doveva avere un vitellino e non ce la faceva. Si rivedeva correre a chiamare gli uomini per essere aiutata. Dopo una notte di travaglio finalmente il vitellino era nato, ma non aveva avuto vita lunga. Era iniziato il lento, ma inesorabile declino della stalla. Le mucche che avevano subìto il terremoto, facevano sì vitellini, ma questi prima o poi morivano, solo alcuni si salvavano. Loro stesse non erano più giovani e forti. Anche Martina non era più come una volta. Il marito era morto e lei sembrava non aver più quella voglia di vivere e lottare, che l’aveva sempre spinta. Così una alla volta le mucche erano state vendute e la stalla aveva cominciato a mostrare la sua cavità buia e silenziosa per tutti, ma non per Martina.
Un volo in musica La foto nell’album mostra una giovane donna seducente accanto ad un uomo altrettanto giovane e bello. La didascalia parla di un film televisivo del 1954. L’opera è: “I Pagliacci” di Ruggero Leoncavallo. Gli interpreti sono nomi famosi nell’ambiente musicale di allora: il tenore Franco Corelli nei panni di Canio, il soprano Mafalda Micheluzzi, scintillante Nedda ed il basso Tito Gobbi, perfido Tonio. Nel guardare la foto la macchina del tempo rimanda a quegli anni lontani. In un piccolo paesino umbro arroccato su una collina a pochi chilometri da Perugia una tredicenne viveva la sua adolescenza. Il vecchio borgo fortificato con mura antiche ed un castello che risale al XIII secolo, feudo una volta dei Corgna, aveva mantenuto, con il palazzo comunale, un marcato aspetto medievale. Nella chiesa di Santa Maria veniva allora, come ora, conservata una pregevole tavola del Perugino. Vivendo distante dal mondo delle grandi città, la ragazzina cercava di godere di quanto il luogo, pieno di fascino e storia, potesse offrirle alimentando le mille fantasie e desideri dell’età. In quel lontano 1954 venivano trasmessi i primi programmi televisivi. Non tutti avevano, allora, la possibilità di possedere un televisore, per cui un gruppo di amici aveva pensato di ovviare al problema, prendendo in affitto una stanza lungo “la fonda”. Così veniva chiamata la stradina a ridosso delle vecchie mura. In quella stanzetta le famiglie si ritrovavano ad assistere agli spettacoli che cominciavano ad essere diffusi dal mezzo televisivo. Quella sera trasmettevano l’opera “I Pagliacci”. Rigorosamente in diretta. La fanciulla era letteralmente stregata dalla vicenda che conosceva già dai dischi del padre, amante di musica lirica. Lui aveva collezionato, infatti, tutti i libretti delle opere e lei già da bambina si divertiva a recitarli con la sorella. Uno in particolare aveva attirato la loro attenzione: il “Don Giovanni” di Mozart. Quest’opera avrebbe avuto modo, anni dopo, di vederla tante volte ed in ottime produzioni salisburghesi. Quella sera le voci, che uscivano dal piccolo schermo, riempivano la stanza ed era come esserci in quel villaggio dove si svolgeva l’azione. Il pagliaccio Canio, nell’invitare i villici alla rappresentazione, introduceva la vicenda. Sarebbe stato uno spettacolo nello spettacolo. La trama aveva cominciato a svolgersi e si facevano avanti sulla scena gli altri interpreti. Faceva capolino Tonio, brutto anatroccolo innamorato e respinto, ed infine lei: Nedda. La giovinetta era rapita da quella donna. Conquistata dalla sua voce e dalle sue movenze ammalianti ascoltava, senza quasi respirare, l’aria che andava cantando. Nel caldo e bel sole di mezz’agosto Nedda osservando gli uccelli volare, sente tutte le bramosie della sua giovane esistenza. Alla mente le torna la madre, appassionata conoscitrice del canto degli uccelli, ed il ricordo va alla piccola canzone che le intonava ed in essa Nedda ritrova il senso della sua vita. “La mamma mia, che la buona ventura annunziava / comprendeva il lor canto e a me bambina /così cantava: / Stridono lassù, liberamente / lanciati a vol come frecce, gli augei. / Disfidano le nubi e ’l sol cocente, / e sanno, e vanno per le vie del ciel Il loro desiderio di libertà era simile al suo, con la sola differenza che a lei, sposata a Canio, marito innamorato e geloso, la libertà sarebbe costata la vita. In quel canto c’era tutta Nedda: Lasciateli vagare per l’atmosfera / questi assetati d’azzurro e di splendor: / seguono anch’essi un sogno, / una chimera, / e vanno, e vanno fra le nubi d’or Quella donna giovane e bruna cantava il suo amore ed il suo desiderio di viverlo. In quella melodia accorata l’interprete di Nedda, con la sua splendida voce e le movenze seducenti, sapeva prendere e conquistare gli animi di coloro che stavano ascoltando, al punto da far dimenticare che, tutto sommato, l’amore di Nedda non era un amore del tutto legale. Sentendo la cantante eseguire con maestria ed intensità quell’aria, si aveva l’impressione che lei stessa vivesse quelle languide parole, quasi facessero parte della propria vita, ed effettivamente in quegli attimi ricordasse la madre lontana. Gli spettatori vivevano con lei quella vicenda e tutti i suoi turbamenti. Anche la fanciulla, in quel piccolo paese sperduto sentiva lo stesso desiderio di correre altrove per vivere vite diverse da quella che la sua adolescenza la costringeva. Voleva essere libera come gli uccelli che Nedda stava osservando e che lei stessa tante volte invidiava nei loro volteggi al tramonto, al ritorno verso il nido. Avrebbe voluto seguirli lontano nei loro voli sopra le colline e planare assieme in altri luoghi più desiderati. Per questo quell’opera e quella donna entrarono nel suo più profondo immaginario di ragazza. Che incalzi il vento e latri la tempesta / con l’ali aperte san tutto sfidar; / la pioggia, i lampi, nulla mai li arresta / e vanno, e vanno, sugli abissi e i mar. E, nell’ardore dei suoi anni, anch’essa era pronta a sfidare qualsiasi tempesta o vento per iniziare a rendere reali i suoi voli fantastici. Vanno laggiù verso un paese strano / che sognan forse e che cercano invan. / Ma i boemi del ciel seguono l’arcano / poter che li sospinge.. .e van... e van! E si vedeva, con Nedda, spiccar il volo attraverso gli spazi infiniti dell’universo. Alle ultime note che chiudevano l’opera, sfumava la vicenda lasciando nel suo cuore un desiderio di ripetere le emozioni provate nell’ascoltarla. Là sul cocuzzolo delle colline umbre, nel lontano 1954 non avrebbe mai immaginato cosa la vita le riservava. E ci furono altre occasioni di rivedere quell’opera, anche se non con gli stessi interpreti. Una di queste interpreti l’avrebbe attesa lontano nel tempo e nello spazio. D’un tratto fu come realizzare i desideri di Nedda. Un volo leggero, veloce di anni e chilometri l’aveva poi trasportata al nord. Le alchimie che solo la vita ed il destino sanno mettere assieme, la portò a vivere proprio nella cittadina dove la cantante di quel lontano 1954 era nata. Nei nuovi luoghi sentiva parlare dei successi del soprano Mafalda Micheluzzi, la bruna Nedda che l’aveva stregata e fatta sognare in quel paesino umbro. Poi la musica ha fatto un nuovo miracolo. Un concerto le fece incontrare, e così, dopo averne sentito parlare ed aver potuto seguire da lontano i suoi successi, le fu presentata Mafalda Micheluzzi. Erano lontane dall’adolescente sognante e dalla splendida Nedda di allora, ma l’amore per la musica le ha unite anche come donne. La foto parla di altri tempi, ma per lei ancora adesso quei momenti sono viva realtà.
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