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Letture
Fiaba di una tartaruga, un’aquila e il cielo
Per a.
La mia fiaba racconta di una tartaruga. Era una comunissima tartaruga di terra, del tutto uguale alle altre; ma questa qui era anche tutta diversa. Per esempio era curiosissima, non era mai stanca di imparare ed esplorare. Più di ogni cosa le piaceva apprendere: e voleva conoscere tutto. Così, per forza di cose era diventata espertissima della vita del bosco dove viveva; i sentieri e i cespugli che vi si trovavano non avevano più segreti per lei e perciò, nelle sue ricerche, capitò un giorno in un posto mai visto prima. La strada era in salita e faticosa; il sottobosco non c’era più e il sentiero saliva tanto che a un bel momento la tartaruga si trovò a dover procedere in verticale! Poi l’erta finì, e proprio sullo strapiombo la tartaruga fece una scoperta meravigliosa. Vide qualcosa che non aveva mai visto prima, e del quale non sospettava nemmeno l’esistenza: il cielo! Era vicinissimo a lei, spazzato da una brezza freschissima, ed era di un colore! La tartaruga non ne aveva mai visto uno uguale; e neanche questo era sempre uguale a se stesso, ma cambiava; si mescolava il blu nel celeste, il celeste nell’azzurro, l’azzurro nel bianco. Qua e là correvano candide nuvole fioccose, all’orizzonte, lontano, si formavano strisce rosa, gialle, violetto e marrone: che meraviglia! E il sole, del quale la tartaruga aveva sempre e soltanto visto i raggi filtrati dal fogliame del bosco, ora sfavillava in tutto il suo splendido calore. Ma non era finita. Ad un certo punto, proprio vicinissimo alla tartaruga, tanto vicino da farla sobbalzare, dagli orizzonti di blu, da chissà dove, sbucò un enorme rapace con occhi color ambra, con due enormi ali bianche dalle punte nere. Quell’animale, in qualche misterioso modo, poteva volare, e il cielo meraviglioso gli apparteneva. La tartaruga vedeva talmente tante stupende sorprese che il cuore le faceva male dalla gioia. Volare! Cosa doveva essere poter fare come quell’aquila e tuffarsi in quel cielo tanto bello. La tartaruga era immaginosa: chissà, poter parlare all’aquila, chiederle come faceva a volare, e magari, massì, poter fare amicizia… forse l’aquila era tanto forte da reggere la tartaruga sul dorso. E allora… Quanto tempo rimase lassù la tartaruga? Quando scendeva la notte e il cielo diventava come una macchia puntuta di luci lontane che di giorno sparivano, la tartaruga ritirava la testa e le zampe nel guscio, tentando di riscaldarsi meglio che poteva, ma spesso mettendo fuori il capo per rimirarsi ancora un po’ quello spettacolo meraviglioso. Tuttavia essa capiva bene di non poter restare in quel luogo, e di dover tornare a casa. Non era terreno per tartarughe; e poi non c’era niente da mangiare. Così, un giorno, a casa ci tornò; con il cuore pieno del cielo che aveva tanto avidamente osservato e dell’immagine dell’aquila e dei suoi voli. La vita nel bosco era la stessa di prima, la stessa di sempre; e non è da dire che ora la tartaruga ce l’avesse in uggia; almeno nei primi tempi. Ma adesso guardava tutto con una specie di compassione tenera e indulgente, perché nessuno di quelli che conosceva aveva mai visto, come invece lei, né il cielo, né l’aquila e nemmeno le nuvole, le stelle e il sole. A poco a poco, però, la tartaruga cominciò a provare una gran nostalgia. Capiva che non avrebbe avuto senso riprendere il cammino percorso, per doversene tornare nuovamente giù, nel bosco; eppoi le immagini che aveva tanto gustato le erano ormai entrate nel cuore, non potevano più uscire! Eppure, la sua nostalgia cresceva e niente riusciva a fargliela passare. Nel bosco dove viveva non c’era possibilità di guardare il cielo! E proprio come lei non poteva più riveder l’aquila, neppure l’aquila avrebbe potuto vedere lei, anche se avesse volato tanto in basso da sfiorare la cima degli alberi: il bosco era troppo fitto! La tartaruga non sapeva come fare: non riusciva più a vivere come prima e non poteva ignorare quanto le mancasse quello che aveva avuto la fortuna di vedere. E così, una bella volta, strisciò fuori dal bosco, cercò un luogo acconcio e con un gesto imprevedibile, folle, temerario e volutamente irreparabile, si rivoltò sul dorso. Quasi immediatamente il peso dei visceri sui polmoni le rese respirare una sofferenza atroce; ma attraverso le lacrime che le solcavano la pelle grinzosa, poteva scorgere, anche più chiaramente di prima, come attraverso una lente, il cielo che aveva tanto atteso di poter rivedere. Naturalmente, accorsero le altre tartarughe, convinte che a questa qui fosse capitata una disgrazia; cominciarono anche a spingerla sui fianchi per rivoltarla, ma nessuno ci riuscì, forse anche perché la tartaruga non voleva. Visto però che non parlava, non si lamentava mai, nonostante soffrisse tanto, le altre tartarughe sue compagne finirono per pensare che questa sciagurata coricata sul dorso fosse matta del tutto. O forse, era impazzita per il dolore, chi poteva dirlo. E la lasciarono sola. Eppure la nostra tartaruga ostinata e pazza, sì, per benino, nel suo silenzio e nella sua angoscia comprendeva ogni cosa. Essa sapeva bene, nella sua saggezza triste, che la causa della sua situazione non era né la vita troppo semplice del bosco, né la stupidità delle sue compagne, e neppure del cielo, che si era dimostrato così lontano e difficile da raggiungere. La causa era lei, lei stessa e nessun altro, soltanto lei. Sì, così ragionava la tartaruga sofferente, ma ancora tanto lucida da capire che non avrebbe mai potuto cambiare la sua natura; la sua natura coraggiosa e curiosa, che l’aveva portata ad apprendere una lezione tanto dura e sorprendente. E di questa scoperta tanto bella, e tanto più grande di lei, la tartaruga aveva pagato il prezzo, e felicemente, con la sua libera scelta. La mia fiaba termina qui. Che cosa ne sarà stato di quella povera tartaruga? Chissà. Forse qualcuno più grande di lei e dell’aquila l’ha sollevata e salvata, e magari, chi può sapere, l’ha condotta in un luogo che essa, non avendolo mai ancora scoperto, non sapeva esistesse; un luogo dove poter contemplare a suo piacimento cielo, aquila, sole, stelle, luna e nuvole. O magari è stata l’aquila stessa a vederla, in uno dei suoi voli; l’ha scorta, presa nel becco e portata con sé, sui monti più alti. Magari per farla cadere sulle rocce e farsene un buon pranzetto! Oppure, molto semplicemente, la tartaruga ha pagato con l’estremo sacrificio la fedeltà a se stessa. Del resto l’agonia di una tartaruga fa tanto poco rumore! Ma essa sarà stata contenta e senza rimpianti, perché fino all’ultimo ha potuto guardare il cielo, dal quale nessuno è riuscito ad escluderla; contenta e fiera, perché il suo ultimissimo respiro è salito a fondersi in alto, con l’aquila e nel firmamento che tanto ama.
La preghiera del Muro Tra
Io sono il Muro Tra.
In tanti luoghi, in tanti cuori, vi sono posti che debbono stare separati, e allora eccomi. Sono fatto di pietra e cemento, di calce e mattoni, ma anche di pensieri e di dubbi, di sospetti e di angoscia, di vendetta e di odio. Sono fatto di sangue, proprio come te. Sono fatto di calda rabbia… e sono fatto di freddo calcolo. Sono sempre lunghissimo… anche quando invece sono corto. Non sono mai bello… e non sono utile… qualche volta dicono di me che sono necessario. A volte mi snodo e attraverso lunghe distanze… ma non posso muovermi mai. Sono il Muro Tra e tu ti senti sicuro… quando io ci sono. Ma io, proprio come te, sono condannato a morte. La mia sentenza è già stata scritta… con una risata leggera è già stata pronunciata. La mia agonia sarà lunga e dolorosa. Ogni singola pietra di corpo e di anima che mi compone sarà diroccata… e con i miei stessi occhi io vedrò la mia fine. Vedrò la terra su cui peso, lo spirito che oscuro, vedrò che non ti sarà più rivale, e nemmeno tuo avversario. Vedrò da me stesso che la ragione per cui esisto non varrà più, e nessuno più la rammenterà. Vedrò, nei miei ultimi istanti, vedrò il mio essere corroso da un vigore a cui non potrai resistere, perché esso è dentro di te, vivo. Io vedrò la mia morte ed essa sarà feconda come una vita. Vedrò un sorriso così intenso da risplendere su ogni volto, vedrò la luce che nessun sole dona, poiché l’amore non sarà più nascosto, ma vivrà in ogni luogo, in ogni angolo e avrà una forza quale io non ho mai avuto. Vedrò fanciulli di cui non si dirà più che sono “il futuro”, poiché il tempo non sarà più né nemico né alleato. Nell’Oggi essi ti insegneranno il gioco meraviglioso di prendersi cura gli uni degli altri e tutti lo apprenderanno… anche tu. La fratellanza trascenderà talmente se stessa, che tu sarai parente di chi ora non conosci… ma poi di questo non ti importerà. Sarai amico di ogni uomo, di alberi e di aria, di insetti e di luce, di stelle e di bestie. E io vedrò tutto questo, prima di morire. Non vi saranno più templi edificati alla pace, poiché essa non sarà né vicina né lontana, come lontano o vicino non ha senso chiamare il tuo respiro. Io vedrò tutto questo prima di spegnermi, prima di sparire, e nessuno rimpiangerà la mia scomparsa. Io prego che questo accada di me prima possibile, e che tu diventi Ciò Che Sei.
Uomo.
E così sia.
Il racconto che segue (Un denaro) è stato pubblicato nell'antologia
"2012 RACCONTI" pubblicata da Edizioni Penna d'Autore

Un denaro
E' sera. Cammino lungo il muro screpolato della strada, e guardo il sole che finisce di tramontare davanti a me: nel cielo giallo non ci sono nuvole, soltanto le ali nere dei corvi. Sono un po' stanco, cammino adagio. Ho lavorato tutto il giorno. Ancora pochi passi e sarò a casa. Oggi sono stato preso a giornata, e sicuramente mia moglie l'avrà saputo: proprio come ogni volta veniva a sapere, anche se non facevo subito ritorno, che non avevo trovato nulla da fare. Invece ora saprà che ho lavorato, e avrà già chiesto in prestito alla vicina la farina per impastare le focacce, e forse anche i fichi secchi per il bambino. Mi viene in bocca, d'un tratto, il sapore dei fichi: sono così tanti giorni che non ne mangiamo, che mi meraviglia l'intensità del ricordo. Vedo davanti a me, ben chiari, i piccoli denti di mio figlio affondare nella pasta scura del frutto, e a questo pensiero mi sento così contento: mi dimentico di essere stanco e affretto il passo.
Non lavoravo da molto. Non posso calcolare i giorni perché il tempo, quando non si ha nulla da fare, è sempre tutto uguale. So che da molto, da troppo, in casa non c'è quasi nulla. Ma adesso non voglio pensarci, voglio essere solo contento, voglio immaginare soltanto che cosa diranno, loro, solo loro, di quello che porto a casa questa sera. Nella fascia della mia tunica c'è una moneta, un denaro, e l'ho guadagnato col mio lavoro, col mio lavoro di oggi. Con quel denaro potremo fare moltissime cose, e se comincio a contarle, chiudendo gli occhi, mi prende quasi una vertigine: quante cose si possono fare con una moneta, una moneta sola!
All'inizio, quando tornavo dalla piazza, e sapevo che la giornata era andata perduta, ricordo che tentavo ugualmente di non sprecarla: cercavo di aggiustare quello che in casa si era rotto: riparare i cardini della porta, cintare di pietre il nostro piccolo orticello, fare provvista di acqua e legna, cose così. Ma poi anche questa voglia mi era passata. Me ne stavo immobile per lunghe ore, osservando i passeri beccare la polvere della strada, e i trastulli di mio figlio, intento a costruire invisibili ponti coi suoi stecchi sottili. Trascorreva molto tempo prima che pronunciassi una parola. In casa udivo i rumori leggeri che mia moglie faceva nel muoversi, nel rigovernare, ascoltavo i discorsi di lei con mio figlio, piccole frasi lievi e leggere; leggere come lei, come lui. Guardavo le sue mani accarezzarlo, lisciargli i fini capelli, colpirgli per gioco la corta gambetta. Vedevo le sue mani muoversi nel buio della casa, schermare i suoi occhi nel sole della via. Poi smisi anche di guardare loro, le mani, mia moglie, il bimbo. Vedevo le loro vesti diventare sempre più lise e consunte: era forse una mia idea, o avevo scorto un buco, una scucitura? Ero fuggito. Camminavo per la strada, lungo i campi, nella calura del mezzogiorno, senza curarmi della sete, della stanchezza inutile che assaliva le mie membra. Non volevo più vederli. Non c'era alcun rimprovero nello sguardo di mia moglie, questo è vero: ma per me non faceva nessuna differenza. Il loro stato mi addolorava così profondamente che non riuscivo, ormai, a provare nessun'altra tristezza.
Ma ecco che mi sorprendo ancora, e non voglio, a pensare a quei giorni; proprio come stamattina, intanto che me ne stavo sulla piazza ad aspettare: ero talmente oppresso dall'angoscia, che non mi accorgevo del sorgere del sole e del meraviglioso sfavillare dei suoi raggi. Riflettevo a cosa dovessi fare, a cosa potessi fare per loro, a me così cari, tanto più cari di quella stessa, benedetta, luce del giorno, che riluceva su ogni cosa come se fosse d'oro. Pensavo a come sarebbe stato bello vedere di nuovo le mani di mia moglie preparare la nostra cena, e gli occhi grandi di mio figlio un po' meno grandi per i bocconi che avrebbe masticato. A tutte queste cose pensavo tra me e me, aspettando.
Alle nove del mattino venne il padrone e ci chiamò, a tutti noi che stavamo sulla piazza ad attendere. " Venite a lavorare nella mia vigna - ci disse - E quello che è giusto io ve lo darò. " Di solito i padroni fanno scegliere ai loro fattori gli uomini più adatti per i loro lavori: costui invece venne da sé, tutti ci guardò e tutti ci scelse, fissandoci uno per uno con grande attenzione. Come si può descrivere la felicità di sentire quella chiamata, di vedere quello sguardo? D'un tratto mi accorsi di quale magnifica giornata fosse spuntata, di che splendido sole illuminasse quella vigna ove il padrone ci condusse per lavorare. Si trattava di una vigna enorme. Non ne avevo mai visto una tanto grande. Neanche sapevo che potesse esistere, grossa così. Si estendeva parte su un poggio, parte in pianura. Una vigna davvero bellissima. Diversi lavoranti erano già all'opera; e anche noi cominciammo subito, dopo che il padrone ci lasciò. Io con alcuni compagni fui messo a lavorare sul poggio, e mi piacque subito. Sentivo il cuore leggero, battere come una musica dietro al mio petto; e la lena, pur dopo tanti giorni d'inattività, affluì senza alcun ritardo alle mie braccia. Il lavoro non mi pesava affatto. Ero anzi orgoglioso di prestare le mie forze per migliorare quelle viti superbe, rigogliosissime. La bellezza di quel luogo e di quella giornata mi abbagliava. Dovunque posassi lo sguardo era qualcosa di incantevole. Provavo una felicità mai conosciuta, e benché seguitassi a lavorare, di tanto in tanto la sentivo traboccare dal mio cuore: mi mettevo a canticchiare, sorridendo tra me e me, come un fanciullo.
Ci fermammo per il pranzo. Non avevo nulla con me ma non mi importava: neanche avevo desiderio di chiacchierare con i compagni, raggruppati a mangiare sull'erba verdissima. Volevo soltanto starmene solo con la mia felicità. Mi rinfrescai con l'acqua della cisterna, bevvi a sazietà, e andai a coricarmi all'ombra di un fico. Sdraiato sul dorso, attraverso le sue folte foglie scorgevo il cielo tranquillo, il suo blu profondo e sereno, e anch'io mi sentivo, così guardando, tranquillo, profondo e sereno, per quanto forse meno bello.
Ripresi il lavoro dopo la pausa. La luce si faceva via via diversa, e il colore dei prati e del fogliame piano piano mutava; e, sempre, ogni cosa mi pareva più bella di prima, e tutta quella bellezza continuava a crescere, e mi avvolgeva come un manto; e, come quella bellezza, anche la mia felicità aumentava, mi gonfiava il petto come il vento un'onda, mi stordiva tanto da non capir più nulla. Come posso descrivere quelle sensazioni? Ero come catturato da un vortice sublime, e per quanto all'apparenza il mio lavoro proseguisse del tutto normale, avevo l'impressione che dentro di me risuonasse una musica, fortissima, una musica verde chiaro, verde scuro, azzurra, rossa; e poi anche grigia, marrone e scura, come i tronchi attorcigliati delle viti sotto le mie dita.
Prima che me ne accorgessi la giornata finì.
Quando tutti ci mettemmo in fila perché il fattore ci pagasse, la musica cessò. Ma ormai, tutto ciò che avevo contemplato mi era entrato negli occhi, e di lì non l'avrei più lasciato andare. Sentivo adesso una grande calma, forse anche una dolce stanchezza, giacché certo, come ogni cosa, anche la bellezza ha un suo prezzo.
Comparve il padrone, parlò al fattore e gli ordinò di chiamare uno per uno tutti gli operai, cominciando però da quelli che aveva preso per ultimi. Mi resi conto, allora, di quanto numerosi noi fossimo, e di quante volte, durante la giornata, il padrone doveva essersi recato sulla piazza per procurarsi dei lavoranti. I primi chiamati dovevano aver lavorato soltanto poche ore. Tuttavia il fattore, allorché essi si presentarono da lui, consegnò a ciascuno un denaro. Dal mio posto non potevo vedere, naturalmente: ero assai indietro, e a stento potevo scorgere, di così lontano, la figura del padrone in piedi accanto al suo fattore. Sentivo però, a mano a mano che la distribuzione continuava, i commenti che i miei vicini facevano: a ciascuno veniva consegnato un denaro. " Ma guarda un po', dimmi se è giusto: anche a quel cafone hanno dato un denaro: l'ho visto bene, sarà tanto se è arrivato alle cinque del pomeriggio. Be', vorrà dire che a noi daranno di più di lui. " Questa voce era risuonata vicinissima al mio orecchio: voltandomi riconobbi anche chi aveva parlato: uno dei miei compagni, uno che si trovava di fianco a me sulla piazza, questa mattina, e che aveva lavorato sul poggio, come me. Proprio in quell'istante venne chiamato il suo nome, ed egli tornò indietro col denaro di sua spettanza. La cosa, però, non gli faceva alcun piacere. Aveva sempre davanti agli occhi quel disgraziato delle cinque, evidentemente, che per pura sfortuna gli si trovava nei pressi: senza curarsi di essere udito, questo mio compagno protestava alzando il tono: " Anche a me un denaro, soltanto un denaro! Non è giusto! Io ho lavorato tutto il giorno, col caldo che ha fatto oggi, e non devo essere trattato come quel mentecatto laggiù, che non ha fatto un bel nulla! Non è giusto, no! " E altre simili proteste si udivano all'intorno. Mi volsi a guardare il lavorante di cui parlavano. Teneva la testa china, come se si vergognasse di guardarsi attorno; non sembrava poi tanto più ricco di noi: era chiaro che aveva bisogno di quei soldi, proprio come tutti.
Io non dissi nulla.
Improvvisamente sentii una pena acuta, sia per quel tale, sia per quelli che protestavano. Se era vero che era stato preso alle cinque del pomeriggio, allora doveva aver passato tutta la giornata sulla piazza, con la speranza che qualcuno lo pigliasse a lavorare. Potevo ben capire l'angoscia che doveva aver provato: la conosco bene, io! Anche io, del resto, non ho iniziato subito il lavoro: sono stato preso alle nove del mattino. E se è vero che ho passato tutta la giornata a lavorare, è vero che alla fine, quando noi eravamo stanchi, questi ultimi ci hanno portato l’aiuto di cui dovremmo essere riconoscenti. La vigna è grande, probabilmente soltanto il padrone ne conosce tutta l'ampiezza. E' chiaro che occorre tanta gente, per lavorarci. Avrà stimato meglio di far così. La sola cosa che mi sembra ora giusto considerare, è come già sia straordinario che a un miserabile pezzente come me sia stato permesso di lavorare in un posto tanto splendido. Non potrei mai dimenticare questa giornata, e, forse, dovrei essere io stesso a pagare il padrone per avermi fatto entrare; chi, poi, può dire con sicurezza di aver lavorato proprio tutta la giornata? Parecchi di noi, quelli che ora magari stanno lamentandosi, hanno dormito a lungo, lo so, per stanchezza o forse anche solo per disinteresse. Sono stato qui tutto il giorno, e lo potrei dire. Per quel che mi riguarda sono contento, invece, perché so che la mia opera, per quanto imprecisa sia stata, non ha danneggiato questo luogo meraviglioso. Mi illudo che abbia anzi contribuito a migliorarla.
Tutto ciò riflettevo, assorto, e qualcuno mi dovette spingere, perché mi presentassi al padrone.
E quando fui sotto il suo sguardo, sotto gli occhi del padrone, che mi stava davanti, ogni certezza riguardo al mio lavoro svanì, e d'un tratto mi assalì, orrendo, il timore di non essere pagato, di dover tornare a casa a mani vuote, di non poter fare nulla per i miei cari. Chiusi gli occhi e vacillai. Un gran freddo mi strinse il cuore. Aprii adagio le palpebre. Davanti a me, sul tavolo del fattore, stava la mia moneta. Il padrone vi pose le dita e la spinse verso di me. Il freddo si dissolse, e sentii una gran dolcezza. Egli mi ringraziò. Quel gesto mi confuse al punto, che mi dimenticai di ringraziarlo a mia volta: presi solamente la moneta e la misi nella fascia della tunica senza una parola.
Il padrone ora rispondeva a uno degli scontenti. Le sue parole giungevano fino a me, mentre mi allontanavo con il mio denaro. " Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse ricevuto quello che abbiamo stabilito? Avevamo convenuto per un denaro e l'hai avuto. Ma io voglio dare a quest'uomo quanto a te. Prendi il tuo e vattene. Non posso fare delle mie cose quello che voglio? "
Ho lasciato la vigna da pochi minuti, e mi sembra siano trascorsi degli anni. In realtà, ho lavorato laggiù solamente per un giorno, ma mi sembra, ora, di averci passato la vita intera. Cammino per la strada che mi conduce verso casa, e sento, strana, la sensazione che anche questa vigna sia un poco mia e mi appartenga, almeno un poco, sì, ora che ci ho lavorato. Quello che hanno detto del padrone non può cambiare le cose. Egli è buono. Ed è vero, essa gli appartiene, come il suo denaro, d'altronde, ed è sua la scelta. Noi siamo soltanto gli operai. E, almeno per quel che mi riguarda, sono convinto che poteva andarci molto peggio.
Ma ormai tutto questo non ha più importanza. Ho terminato il mio lavoro, e ho con me la mia paga. La vigna rimane sempre più indietro, ad ogni mio passo, indietro rimane anche la felicità che ho provato in quel luogo: più vicina si fa la gioia che recherò alla donna e al bimbo che aspettano che io ritorni. Continuo a camminare, e guardo il cielo giallo dove i corvi disegnano gli ultimi voli della loro giornata.
Ogni tanto controllo nella fascia. Ma non c'è da preoccuparsi: la moneta è sempre lì.
Fiaba di uno specchio
C’era una volta uno specchio. Era bellissimo e assai prezioso: aveva una cornice ricchissima ed era fatto del cristallo più puro. Non era piccolo da poter essere tenuto in mano e non era grande tanto quanto una parete; stava posato sul tavolo da toletta nella camera di una nobildonna, la quale abitava una immensa villa; ella se ne serviva per specchiarsi quando si truccava e pettinava. Lo specchio rifletteva tutto quanto c’era sul grande tavolo, le boccette di profumo e di cosmetici, i pettini e le spazzole, i gioielli e tutto quanto con cui la dama si adornava. Rifletteva anche buona parte della stanza dove si trovava, anch’essa grande e bella, e finanche una porta-finestra dalla quale entrava la luce e da cui si scorgevano il cielo e gli alberi di un parco. La dama trascorreva molte ore davanti al suo specchio, a volte da sola, a volte con la sua cameriera, o la sua parrucchiera e via discorrendo; lo specchio poteva riflettere anche un enorme letto carico di cuscini e trine, e specchiava la dama e altri gentiluomini eleganti che su quel letto ridacchiavano scompigliandone la biancheria. Poteva riflettere anche un signore dal ventre sporgente e corte gambe magre, che tossiva nei fazzoletti camminando avanti e indietro, con il quale la dama non rideva mai, ma parlava in continuazione e in tono astioso di qualcosa chiamato “denaro”. Riflettere le cose non significa comprenderle; e lo specchio rimandava sempre le stesse immagini, nonostante qualcosa poi cambiasse: i gentiluomini dai pizzi spumeggianti, il colore che si scorgeva del cielo, gli alberi che si spogliavano e si rivestivano di fresco fogliame, di stagione in stagione, e diverse gioie e sempre nuovi vasetti di belletti che prendevano ad allinearsi sotto la sua cornice. Qualcosa dall’interno dello specchio saliva in superficie come una bolla da una sorgente… e piano, molto piano, esso sentiva formarsi come una domanda, dentro il profondo di sé… cosa? … come? A volte perfino anche: perché? Capitava che la gentildonna per qualche tempo si assentasse, e lo specchio rimaneva a riflettere la stanza deserta. Di quando in quando entravano cameriere in cuffietta che facevano andare piumini sullo specchio e sulla sua superficie lucente; le imposte di legno scolpito venivano accostate sulla finestra e grazie alla poca luce che filtrava, lo specchio rimandava la fioca immagine degli oggetti che la polvere man mano ricopriva, accumulandosi sulla tavola, sotto il letto, sulle seggiole imbottite e sul pavimento. Quando la dama era di ritorno, lo si comprendeva dalla confusione che riempiva la stanza, prima tanto tranquilla; le imposte e le finestre erano spalancate e la luce irrompeva dove fino a poco innanzi era rimasta tanto schermata; lo specchio rifletteva grande agitazione e confusione e ogni cosa, compreso lui stesso, era oggetto di cure frenetiche e affrettate. Capitò in un paio di occasioni che la stanza fosse chiusa del tutto. Qualcosa coprì pesantemente lo specchio ed esso precipitò in un buio e in una oscurità totali. Non poteva fare nulla per la quale era stato creato, non poteva vedere né far vedere qualcosa, il silenzio nel quale era avvolto era completo e ineluttabile. La prima volta che successe lo specchio non poteva comprendere che cosa lo aspettasse; ma la seconda invece sì, e si sentì afferrare da un misterioso terrore. Pensò: per quale motivo gli capitava questo? Perché non era più in grado di essere ciò che era? Che tutto fosse inutile? Lo specchio non poteva dirsi che cosa fosse questo “tutto”, ma, una volta liberato, dopo qualche tempo, si sforzava di guardare e riprodurre puntualmente, anche più di prima, tutti i dettagli di ciò che lo circondava, in attesa di poter rispondere agli interrogativi che i periodi di tenebra avevano creato in lui. Ma niente di nuovo succedeva per fargli da guida, tranne una volta. Se lo specchio non avesse attraversato la prova del silenzio, forse non avrebbe fatto più che tanto caso al fatto che si svolse dinanzi a lui… Nella stanza entrò una donna, che non vestiva né sete né pizzi, né crestine e mussoline; aveva un abito nero corto e liso e in capo portava un fazzoletto scuro. Prese a riordinare e ripulire la toletta, poi passò uno strofinaccio sulla cornice dello specchio, chinandosi lievemente verso di lui e facendo grande attenzione. Lo specchio notò che la mano che passava sulla sua superficie era insolitamente leggera; la donna intanto mormorava qualcosa sottovoce, in un tono dolce e malinconico. La porta della camera si spalancò e irruppe singhiozzando una bimbetta scalza, anch’essa in nero, che corse a stringersi alla donna, proprio di fronte allo specchio, chiamandola “mamma” in mezzo alle lacrime. La donna, meravigliata, lasciò lo straccio e prese fra le sue braccia la piccola, asciugandole il volto con lo stesso tocco gentile con il quale prima aveva spolverato specchio e ripiano: “Cosa c’è, cara? – le chiese – che hai, perché piangi?” “I ragazzi mi hanno scacciata e mi hanno detto che sono brutta – si lamentò la fanciulla, nascondendo il viso bagnato di pianto contro la gamba della madre – Hanno detto che sono brutta e non mi lasciano più giocare!” La donna sollevò il viso alla bambina e la fece guardare per bene verso lo specchio. Le carezzò il capo fino a quando il pianto non si calmò. Lo specchio guardava e rifletteva: poveretta! Bella non era di certo, così magra e smunta, e il viso, in cui sembrava ci fossero solo occhi, era tanto pallido! Esso era avvezzo a riflettere tutt’altre immagini… “Guarda bene! – disse la donna – Guardati nello specchio: che cosa vedi?” La piccina rispose: “Me!” “Che cosa di te? Guarda! Dimmi!”, insisté la mamma. “La faccia… gli occhi…” “Sì! Il tuo viso, i tuoi occhi. Ora dimmi: dove hai già visto e che cosa di quel faccino, che mi dici di quegli occhi? Guardali bene, guardati bene nello specchio…” La teneva stretta al fianco e fissavano entrambe il cristallo. La bimba staccò gli occhi dalla propria immagine e li fermò su quella della madre. Poi tornò al proprio viso e poi di nuovo a quello della donna. D’un tratto sorrise. “I miei occhi – disse piano – … i tuoi!” La mamma si chinò e l’abbracciò strettamente. “E che ne dici tu? Tu pensi che io sia brutta?” La bambina continuava a sorridere: “No! – rispose – Sei la mia mamma!”, e passò le sue braccia sottili attorno al collo della donna. “Vedi? Lo vedi?”, ella le disse dolcemente. Adesso non guardavano più verso di lui, ma lo specchio rimandò fedelmente l’immagine del loro identico sorriso, reso sublime dall’affetto che lo illuminava. Lo specchio era attentissimo. Forse… Allora era questo… era… Purtroppo la scena fu interrotta dalla gran dama, che fece il suo ingresso nella stanza e prese a strillare tutta irritata. Scacciò madre e figlia dalla toletta, dallo specchio e dal proprio appartamento, dichiarando con frasi incoerenti che lo specchio era suo e che doveva rispecchiare soltanto lei stessa… o comunque “solamente cose belle”. Allo specchio dispiacque. Gli era sembrato di cogliere…
Forse la gentildonna non era poi tale con tutti, forse era gentile solo con qualcuno… Passò del tempo. La dama non doveva più incipriarsi i capelli per nasconderne il colore, e i barattoli e le bende sulla tavola della toletta si affollavano sempre più numerosi. I gioielli erano diversi e più appariscenti; di giovanotti divertenti in camera non ne entravano più, ma uomini con visi cadenti e pesantemente truccati, la cui voce non era allegra ma rauca e strozzata. Davanti allo specchio non si rideva quasi più.
Una sera il gentiluomo dallo stomaco imponente e dalle gambe magre raggiunse la dama e le parlò con molta serietà. “I nostri bei giorni sono quasi finiti, mia cara, e che cosa ne è restato? Noi non abbiamo fatto altro che accumulare piaceri, ed essi ora si sono quasi tutti dissolti.” “Be’ – la dama gli replicò – e che cosa c’è di male in questo? Lo fanno tutti!” “Ah, non proprio tutti, cara. E no, non c’è niente di male, siamo fatti per la gioia. Tuttavia al di fuori di qui qualcuno potrebbe non essere d’accordo con te. Anche quelli che finora sono stati privati di piacere lo vorranno, e finiranno per averlo. Noi siamo stati come cotesto specchio tuo: abbiamo rimandato splendide immagini, ma non abbiamo creato nulla che potesse avere vita più lunga di un attimo. Ciò che ci aspetta sarà assai più difficile che apparire giovani!”
Accadde che il gentiluomo avesse ragione. Non poteva percepirne il motivo, ma allo specchio parve ugualmente di comprendere che la casa si riempisse di una strana agitazione; qualcosa che fino a quel momento non era mai successo turbava tutti gli abitanti della villa. Si udivano grida sconvolte; porte e finestre sbattevano, i pavimenti tremavano sotto passi concitati, persone sconosciute facevano irruzione nelle ampie stanze. Una sera tardi la dama si precipitò nella stanza; era avvolta in un mantello nero e tutta la sua figura era scossa da un tremito. Lo specchio fu colto da timore. Ella era accompagnata da un uomo alto e robusto, il quale strappò letteralmente lo specchio dal suo posto, lo infagottò frettolosamente e lo portò fuori della villa, reggendolo sulle spalle. La vecchia coltre che lo copriva continuava ad oscillare, sicché lo specchio intravide una carrozza ferma all’ingresso della villa, illuminata da torce fumanti. Tutto quanto il resto era immerso nelle tenebre. Qualcuno fissò lo specchio e altri bagagli al tetto della vettura e la dama vi salì, sola, portando una larga borsa. Tutto il mondo che fino a quel momento lo specchio aveva conosciuto roteò via in una corsa folle, in mezzo alla notte oscurissima. Vi fu un terribile scossone e le funi che stringevano lo specchio si spezzarono. Lo specchio fu sbalzato via; una parabola spaventosa lo liberò dalla coperta ed esso ricadde a terra. Un colpo violentissimo lo percosse e finalmente giacque immobile. La carrozza e ogni altra cosa erano scomparse. Il buio era ancora fitto; era come se lo specchio sanguinasse internamente, attanagliato da un dolore atroce. Esso non capiva, non comprendeva niente; non vedeva niente. Tuttavia, in modo agli inizi impercettibile, ma poi sempre più rapidamente, intorno allo specchio cominciò a diffondersi un vago chiarore. Il cristallo della sua superficie si coprì di qualcosa di umido come un pianto; faceva molto freddo. Si levò una brezza forte, continua; lo schermo di oscurità al di sopra dello specchio lentamente prese a sollevarsi. In alto brillavano a tratti lontanissimi lumi; la notte fuggiva a passi sempre più lesti, tallonata da un lucore ardito; e man a mano che la luce brillava, essa svelava sempre più i contorni accanto allo specchio ed esso riusciva a rivelare anche la propria posizione. Sopra di lui non v’era altro che il cielo, quello che remotamente aveva riflesso nella villa della dama; questo poteva capirlo; sentiva i fruscii e i suoni leggeri che l’alba accendeva avanzando, i richiami di uccelli, lo scrosciare delle foglie e dei rami di un qualche bosco vicino. Sembrava che tutto si stesse preparando per un grande evento. Lo specchio attese. Nell’attesa la sua angoscia si dissolveva come la tenebra. Quando vi fu abbastanza luce, in effetti, capitò un fatto mai prima di allora avvenuto. Lo specchio rifletté se stesso. Vide chiaramente la superficie del cristallo attraversata da una profonda frattura. La cornice non si era rotta, ma lo specchio, all’interno di essa, appariva diviso in due: una zona piccola come un angolo, la quale rispecchiava una zona erbosa con piccoli steli tremanti alla brezza mattutina; e un’ampia zona che rifletteva, oltre al tremendo solco e a quella piccola parte di se stessa, tutto l’arco ininterrotto del cielo, che si curvava al di sopra di lui sempre più vasto e luminoso. La parte più grande dello specchio rimandò l’immagine di uno spazio che acquistava gradatamente un colore azzurro che si faceva sempre più intenso e magnifico; a tratti qualche nuvola bianca lo attraversava, con ciò rendendolo ancora più splendido e lucente. La vita si destò anche sotto il piccolo angolo dello specchio, che rifletté un insetto intento a trasportare faticosamente uno stecco, camminando tutto intento attraverso i fili d’erba verde. Il giorno saliva e lo specchio rimandava un sempre crescente bagliore; la sua parte più ampia cessò d’esser tutta azzurra, ma, di istante in istante, acquistò un colore sempre più caldo. E ardente si faceva il tempo; l’umidità che aveva ricoperto come lacrime lo specchio, si asciugò e svanì, come se non ci fosse mai stata. La terra sulla quale era caduto acquistò un odore grasso e ricco; altri insetti raggiunsero il primo sotto lo spigolo; e l’aria si riempì di frinire e richiami sempre più forti. Tuttavia, di momento in momento, ogni qual volta lo specchio avrebbe creduto che il risplendere della luce non potesse aumentare oltre, questa si faceva sempre più chiara e ardente fino a che l’intera superficie infranta dello specchio ne fu tutta sfolgorante. Esso cominciò nuovamente a provare tremore. La luce era candida e fiammeggiante; un disco circolare apparve ben distinto nel cielo, per poi confondersi a poco a poco nel chiarore da lui stesso generato. Il riverbero e il suo calore assalirono lo specchio come attirati da esso; nello specchio si accese come un ricordo, si rammentò di una scintilla… sprigionata da un fuoco dal quale lui stesso era nato… Rammentò rapidamente un sorriso… e la luce che ne era nata… E tutto aumentava, cresceva, si moltiplicava, fino a che gli sorse la paura che ancora dovesse, come al principio della sua vita, fondersi… annullare se stesso nel magma e nel fuoco, nella luce abbagliante… Lo specchio non poteva vantare più alcuna ricchezza; per giunta era rotto; ma il calore e l’energia si amplificavano tanto che abbandonò ogni timore, ogni ricordo di male, ogni pensiero per se stesso, e incredibilmente prese a generare un riflesso potente, lui stesso ardendo come un fuoco nel quale tutto il resto si spense… I colori svanirono in un bianco accecante, in un tumulto di gioia…
Cosa ne sarà stato dello specchio? Avrà veramente raggiunto il calore e il chiarore del sole al punto di fondersi, scomparire? Forse un incendio sarà addirittura nato da quell’incontro bruciante? O forse quel chiarore abbacinante si sarà spento lentamente, lasciandolo raffreddarsi e riposare? Quel fuoco tanto potente avrà forse risanato la sua ferita? O forse, sotto una luce più mite, lo specchio avrà continuato a vedere le due parti di se stesso, una intenta ad osservare la vita semplice, come quella degli insetti e dell’erba; ma con l’altra parte di sé rammentando per sempre la conoscenza e il vero suo essere, come gli era stato rivelato.
Come un gioco
Come un gioco di sorrisi, parole e carezze - gesti che mi insegnavano La tua spalla curva e paziente - la mia accoglienza curiosa e lieta Cos’era? Come volevamo chiamarla, quella gioia che costruiva ponti nella lontananza Ponti dorati fatti di parole e desiderio di domande e risate Quella gioia che costruiva e si espandeva Che creava miracoli senza accorgersene senza importarsene Miracoli sempre uguali e sempre diversi ogni mattina e ogni sera? Quella cosa che dal sogno e dall’immaginazione ci ha, alla fine, consegnati al dono a quel dono di sé tanto divertente e serio tanto tenero e violento tanto pazientemente esigente a quella complice rinuncia, nell’ossimoro che ci piaceva tanto…? Quale nome per quel dare e ricevere meravigliosamente confusi Per quell’attesa apparentemente saziata per l’abbraccio che non basta, pur stretto, stretto! Per la nudità del cuore, dell’anima, a cui non serve poi troppo quella del corpo… Che nome che nome? Tu poche – poche! – volte mi ha chiamato “piccola”… Io che ormai piccola non sarò più, nata dalle tue dita e fatta crescere fino a essere donna… No, le parole non bastavano, eppure avevamo solo quelle… Parole che nell’incomprensione ci univano anche più Perché capivamo quanto fossimo, ormai, al di là! Tu ed io, insieme, anche se non insieme in quello che era più grande di noi, più grande del dire, parlare essere… amore! Ed ecco: quello che di me che cercavo disperatamente di raggiungere quello che sapevo essere vero, il mio vero essere proprio lì, ad un passo… che volevo solo per fartene dono, perché quella scintilla non perisse - il me che son te per te e in te no quel dono non l’hai voluto - a quella luce forse troppo accecante ti sei sottratto da quel calore - di me che avevo sempre freddo - ti sei schermato, infinitamente caro! e ora solo accanto a te – lontana come sempre eppure come mai prima - Accanto a te mi son seduta, invisibile e severa! E sapevo che tu lo sapevi… Al mio cuore che tutto conosce che tutto sa ho chiesto di te Nelle lacrime nel rimpianto nel rammarico accorato Ma il mio cuore non mi ha risposto… Saltella e gioca col tuo Da sempre e per sempre immemore e ignaro Solo avvinto in quel legame che io posso soltanto intravvedere Dalla quella croce di tempo e spazio dalla quale non sono ancora scesa
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