Note biografiche
Nela foto: Giancarlo Perazzini con Rina Gambini alla premiazione di Il fascino della memoria, Pontremoli 2013
Giancarlo Perazzini è nato nella Repubblica di San Marino il 27 febbraio del 1950, e risiede a Bagnone (MS) in Lunigiana dal marzo del 2002. A soli 17 anni entra nel mondo delle costruzioni, e dopo avere conseguito il diploma, inizia un vero e proprio peregrinare professionale che lo vede per alcuni anni nel profondo sud dell’Italia, poi in Arabia, ed infine, a soli 32 anni, in Cameroun. Gli anni trascorsi in Africa nera si riveleranno come i più importanti nel processo di maturazione della sua personalità. Obbligato a rientrare in Patria per ragioni di salute, con il passare degli anni si rende conto sempre più che una parte del suo cuore e della sua anima è rimasta laggiù, colpita essa stessa da una malattia incurabile: il mal d’Africa. Divenuto dirigente a soli quarant’anni, guida un’impresa di costruzioni tra le più importanti d’Italia. È titolare d’importanti brevetti che trovano applicazione nel campo delle costruzioni e delle manutenzioni autostradali. È sposato e padre di cinque figli. Nel 2007 ha pubblicato la sua prima opera narrativa “Jan – Mal d’Africa Ricordi di una parentesi africana 1982-1985”; nel 2008 il suo primo giallo, “Intrighi e delitti sull’isola”, presentato in anteprima in occasione del Bancarella 2008; nel 2009 pubblica il giallo “Il mistero del castello” e nel 2010 il suo primo saggio dal titolo “Uomini o bestie? la casta siamo noi”; seguono nel 2011 “Sei numeri per l’inferno”, nel 2012 il suo secondo saggio dal titolo “Omicidio dell’anima” e nel 2013 “Ricetta mortale”, un triller con implicazioni culinarie ambientato in parte a Racconigi ed in parte in Africa equatoriale.
Note critiche
La scrittura di Giancarlo Perazzini è principalmente autobiografica e, anche quando scrive romanzi polizieschi, crea un personaggio, quasi sempre il protagonista, che rappresenta il suo alter-ego. Fin dagli esordi, però, la permanenza in Africa ha segnato la sua narrativa, come dimostra questo racconto, decisamente molto interessante di un’avventura africana, significativo sia per l’ambientazione puntuale che l’autore sa costruire, sia per la capacità di narrare un episodio di corruzione senza dare giudizi morali drastici. Il lavoro negli Stati africani è da sempre connotato come sfruttamento della manodopera locale e fonte di lucro per i lavoratori europei: Perazzini aveva l’incarico di mettere fine agli abusi e lo ha fatto con decisione, ma anche con un rispetto encomiabile. Ed encomiabile è il suo modo di raccontare: preciso, lineare, sobrio e sintetico, alieno da orpelli, ma sempre attento alle scelte linguistiche. Poi, c’è l’Africa, con tutto il suo fascino e con tutto l’amore che l’autore prova per queste terre lontane, sentimento che si percepisce in ogni passaggio narrativo.
Letture
C’era una volta l’Africa
Giancarlo Perazzini a quel tempo era un giovanotto di appena trentadue anni che per motivi di lavoro risiedeva in Cameroun, un Paese dell’Africa equatoriale noto ai più unicamente perché qualche mese prima, in una partita dei campionati del mondo di calcio in corso di svolgimento in Spagna, era stato capace di imporre il pari all’Italia. Anzi, per essere giusti e dare a Cesare ciò che è di Cesare, fu l’Italia che compì l’impresa di pareggiare fortunosamente a tempo scaduto. Comunque sia, grazie a quel pareggio la nostra Nazionale del pallone si qualificò per la fase successiva, andando poi a vincere il titolo strapazzando in finale la Germania. Giancarlo, che nonostante la giovane età si era già costruito la fama di uno che non si scoraggia di fronte alle difficoltà, era stato inviato in Cameroun con il compito di mettere ordine nel sistema produttivo dell’azienda che da troppo tempo faceva registrare dei costi troppo sbilanciati rispetto alle produzioni realizzate. Mentre sonnecchiava a bordo del vecchio 747 della Cameroun Airlines in volo verso Douala, la capitale economica di quel misterioso paese, si chiedeva se all’origine dei problemi che era stato chiamato a risolvere vi fosse l’incapacità, la disonestà, o peggio, entrambe le cose. Quando scese dall’aereo fu investito da una vampa di aria calda e umida che per pochi istanti gli bloccarono il respiro in gola. I pantaloni e la camicia gli si avvilupparono al corpo come una seconda pelle, e in un battibaleno si inzupparono di sudore. Era addirittura peggio di quanto si era immaginato dopo avere letto da qualche parte che Douala era la città più piovosa al mondo, con un tenore di umidità dell’aria sempre prossimo al cento per cento. Nel parcheggio antistante l’aeroporto individuò immediatamente la Toyota Corona di colore bianco con il logo dell’impresa stampato sulle fiancate. Vi si avvicinò con passo deciso e si presentò all’uomo che attendeva sonnecchiando seduto al posto di guida. Quello scese immediatamente per occuparsi del bagaglio e per aprire la portiera posteriore al suo unico ma importante passeggero. Giancarlo ringraziò, girò attorno alla vettura e si sedette accanto al conducente. David, così disse di chiamarsi, avviò la vettura, innestò la marcia e si mosse per affrontare i cinquecento chilometri di pista che separavano Douala da Bafoussam. Lungo la strada che solcava obliquamente la sterminata foresta di palme la vettura procedette a velocità sostenuta per alcune decine di chilometri, ma quando la pista prese ad arrampicarsi lungo il costone roccioso che porta sugli altipiani montuosi che caratterizzano la Regione dell’ovest e il fondo si fece molto più irregolare, David dovette rallentare sensibilmente l’andatura. Man mano che la vettura arrancava lungo i ripidi tornanti la vegetazione si fece meno fitta, e ben presto le alte palme lasciarono il posto a sporadiche piante di banano, di mango, di avocado, o di caffè. In prossimità dei villaggi, ai bordi della pista, si ergevano dei pali alti e dritti che a Giancarlo richiamarono immediatamente alla memoria il palo della cuccagna, che in occasione della festa del Santo Patrono suo padre e gli altri “Priori” erigevano nello spiazzo del lato sud della chiesa di Collina di San Leo, la piccola frazione dove aveva trascorso l’infanzia. Ai pali però non vi erano appesi i prelibati prosciutti e salumi del Montefeltro, bensì delle strane bestiole che Giancarlo non riuscì a distinguere, ma che ugualmente gli suscitarono una grande pietà. Ai piedi dei pali medesimi c’erano delle bottiglie che contenevano degli oggetti dalla forma strana simile a quella dei bachi da seta. Quella stessa sera a cena ne parlò con i presenti e quelli gli spiegarono che gli animaletti appesi erano quasi sicuramente dei rat bananier, una specie di topo dalla carne molto prelibata che si nutre principalmente di banane, e che le bottiglie contenevano larve di bruco e cavallette. Giancarlo deglutì a fatica il boccone che stava masticando e si trattenne dal chiedere ulteriori spiegazioni.
Non appena fu insediato nell’incarico che gli era stato affidato, cercò di capire su chi potesse fare affidamento e chi invece avrebbe fatto di tutto per ostacolarlo, come sempre avviene quando qualcuno arriva a turbare il tran tran quotidiano di soggetti che mirano a curare i propri interessi personali a scapito di quelli dell’azienda che li paga. Giancarlo non impiegò molto tempo per capire che questi ultimi erano tanti, ma che per fortuna c’erano anche alcune persone che eccellevano per capacità ed onestà. Su queste si appoggiò per riorganizzare la società e per stroncare i troppi furti che venivano perpetrati in ogni settore. E così, per necessità e per passione, o forse per vocazione, in quel lontano e meraviglioso paese dell’Africa equatoriale, Giancarlo Perazzini si calò nelle vesti dell’investigatore, ed in meno di due mesi mise un freno ai numerosi e consistenti furti di gasolio, ed ad altri atti criminosi, come quello che andiamo a raccontare. Nel corso delle verifiche che gli avevano consentito di smascherare un certo numero di dipendenti impegnati a vendere a terzi enormi quantità di carburante di proprietà della società, Giancarlo aveva notato che il consumo giornaliero degli oltre cento camion in forza al cantiere era troppo elevato in rapporto ai viaggi che gli stessi effettuavano nell’orario di lavoro. Quando ne parlò al capo cantiere, tale Brancolino, questi rispose che, tenuto conto della vetustà dei mezzi e delle molte salite che caratterizzavano il percorso, il consumo di gasolio poteva considerarsi normale e di conseguenza non c’era motivo di preoccuparsi. Brancolino faceva parte della schiera dei cosiddetti mercenari, e la sensazione “a pelle” che Giancarlo aveva percepito nel corso del primissimo incontro era stata non solo negativa, ma addirittura sgradevole. No, a Giancarlo quel soggetto proprio non piaceva. Per nulla convinto dalle parole del capo cantiere continuò a controllare il consumo dei carburanti e notò che quello di molti autocarri era stranamente alterno. Qualche volta poteva considerarsi nella norma, altre volte invece era molto più elevato. “Il tragitto è sempre il medesimo, il numero di viaggi anche, quindi i conti non tornano, mio caro Brancolino” disse Giancarlo tra sé e sé. Nel frattempo, come già detto, aveva avuto modo di apprezzare l’impegno e la serietà di alcuni degli italiani appartenenti al nucleo storico dell’impresa e tra questi di Rodolfo Polimanti, capo meccanico, responsabile della base logistica di Bafoussam. Di lui Giancarlo aveva avuto immediatamente una sensazione positiva e il suo istinto gli aveva suggerito che poteva fidarsi. Lo mise al corrente dei suoi sospetti ed insieme organizzarono un piano di azione semplice ed efficace. Qualche sera dopo, mentre Brancolino e tutti gli altri erano a cena, Giancarlo e Rodolfo annotarono i chilometri percorsi da tutti i camion che erano parcheggiati all’interno della cava di Mbouda. Il mattino successivo di buonora ne ricontrollarono i contachilometri e scoprirono che, chi più chi meno, nella notte avevano percorso qualcosa come trecento chilometri ciascuno. Era logico pensare che il capocantiere non poteva non essere a conoscenza di quegli spostamenti notturni, come confermava l’eccessiva fretta con la quale aveva preteso di giustificare gli elevati consumi che Giancarlo gli aveva segnalato. Se fosse stato in buona fede, quanto meno sarebbe stato sfiorato dal dubbio egli stesso. Si trattava ora di sorprenderli nel corso di questi raid notturni, di prenderli con le mani nel sacco, come si dice in questi casi. Fu persino troppo facile. Brancolino e la sua combriccola di furfanti erano talmente sicuri di loro stessi e della protezione di cui evidentemente godevano che non si curarono di prendere la benché minima precauzione, neppure in seguito ai dubbi espressi da Giancarlo. Qualche sera dopo, al termine della cena consumata alla mensa aziendale, che guarda caso era diretta dalla signora Brancolino, il furfante in capo si alzò e salutò i presenti con un fare che a Giancarlo parve essere troppo frettoloso: “Sono molto stanco, vado a dormire” disse. Per l’improvvisata coppia di investigatori fu facile precederlo a Mbouda e coglierlo sul fatto mentre indicava agli autisti quale merce avrebbero dovuto caricare e quale sarebbe stato il tragitto da compiere. Si trattava di contrabbando di caffè. Il grande logo della società disegnato sulle portiere era una specie di lasciapassare per i gendarmi dei vari posto di blocco e di conseguenza quei mezzi potevano essere utilizzati senza nessun rischio, in particolare per il contrabbando, ma anche per altri movimenti che la legge locale non consentiva. Giancarlo non lo denunciò, perché non aveva tempo da perdere nelle aule di tribunale, ma lo costrinse a dare le dimissioni. Brancolino lasciò il paese, e con lui la moglie. Giancarlo poteva ritenersi soddisfatto, erano passati poco più di due mesi dal suo arrivo in Cameroun e già era riuscito a tagliare la testa del serpente più velenoso, ma tanti altri ce n’erano ancora in circolazione, come ebbe modo di constatare nei mesi che seguirono.
Il nuovo romanzo di Giancarlo Perazzini

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