Note biografiche
Presentazione:
Sono nata a Brescia il 16/6/1951 da genitori cremonesi. Dal 1978 vivo a Poncarale, nel verde del Parco Naturale del Monte Netto, tra i vigneti del Colli del Longobardi. Oltre agli animali di casa (due cani, tre cavalle Haflinger, tre gatti British) vivo circondata dagli altri animali presenti nel Parco ( conglietti selvatici, lepri, aironi, rigogoli, gufi e civette, ogni tanto una volpe di passaggio e gatti di fatto ex-randagi).
Studi: dopo le scuole dell'obbligo, ho frequentato: - 1964/65: Liceo Artistico V.Foppa, Brescia; - 1965/69: Scuola Linguistica presso l'Istituto Madri Canossiane di Brescia (1965-1969); - 1969/71: Corso per Tecnici di Laboratorio, c/o Ospedali Civili Brescia; - 1970/74: Scuola di perfezionamento linguistico Goethe Institut Schwaebisch Hall, Gerrmania;
Lavoro: Dopo una breve esperienza di lavoro presso l'Ospedale dei Bambini Umberto I di Brescia, ho trascorso la mia vita lavorativa nell'azienda di famiglia (Astori Tecnica snc) tenendo rapporti con l'estero ed occupandomi di traduzioni scientifiche. Dal gennaio 2013 sono felicemente passata al ruolo di pensionata.
Interessi: Curiosa di natura, da sempre interessata alla cultura nelle sue varie forme, comprese quelle meno ortodosse, ho frequentato corsi e seminari di vario genere tra cui: arte, regia teatrale, letteratura, teologia, discipline olistiche e filosofie orientali. Dal 1997 ho iniziato a raccogliere e riordinare dati, documenti e testimonianze sulla Resistenza partigiana cremonese. Dal 2011 sono socia del Circolo culturale "I Giunchi" di Brescia; dal 2013 dell'Associazione culturale G.B. Massolini e della Fondazione Castello di Padernello, presso cui ho partecipato al seminario "Plus Ultra l'Uomo in Viaggio - Popoli in marcia - ". Nel 2008 mi sono avvicinata allo studio della cultura e della religione ebraica, che curo con passione ponendo particolare attenzione alla ricerca storica di insediamenti e luoghi di culto nella provincia di Brescia, in Italia e nel Nord-Europa. Adoro leggere e frequentare le librerie, quelle storiche, in cui ancora è presente il Libraio, disponibile a dare consigli e suggerimenti preziosi e nelle quali sembra che il tempo possa fermarsi. Considero "pietre miliari" del mio percorso letterario "Le confessioni" di S.Agostino, "Le affinità elettive" di Goethe, "Beato L'Uomo" di Martin Buber e "Ritorno a Dio" di Mosé Maimonide. Amante dei viaggi, lunghi o brevi che siano, ovunque io mi trovi mi sento cittadina del mondo. Amo seguire itinerari che mi permettano sia di approfondire maggiormente le tematiche d'interesse sopra citate, sia di cogliere l'anima del luogo in cui mi trovo, delle persone che incontro e della Natura circostante.
Note critiche
Claudia Astori ha una naturale propensione per la scrittura, sebbene non abbia mai avuto tempo di coltivarla. Solo recentemente, e in occasione della pubblicazione della raccolta “Il fascino della memoria” ha vinto la ritrosia che la distingue ed ha inserito un racconto, o meglio, il ricordo di una persona che ha avuto ruolo importante nella sua esperienza, dimostrando un autentico talento narrativo. Il ricordo di questo brano, infatti, coincide con un’esperienza formativa, di carattere collettivo e con intenti di socializzazione, animata da una figura emblematica di sacerdote moderno, attivo, aperto, capace di intuire le attitudini dei suoi parrocchiani e di incentivarle con attenzione affettuosa. Un’esperienza che ha inciso profondamente nella visione di vita dell’autrice, rendendola tenace e sicura, spingendola fuori dalla chiusura della timidezza verso il confronto con l’altro. Ed ella la narra con pacatezza un po’ nostalgica, con semplice eleganza di forme e lessico, e soprattutto con ammirazione e gratitudine verso don Angelo, a cui deve l’entusiasmo per l’impegno che non l’ha più abbandonata. Uno spaccato di vita collettiva di alto valore etico.
Letture
Un salto di qualità
“Un salto di qualità. Ricordati: bisogna sempre fare un salto di qualità. Mai fermarsi ad un certo punto del cammino, accontentandosi di quanto è già stato fatto. Bisogna puntare in alto, salire i gradini, uno alla volta, piano piano, ma salire...salire !”
Quante volte ho sentito questa frase da don Angelo, quante volte l'ho ripetuta e condivisa riportandola fedelmente ed insistentemente agli amici del gruppo teatrale... Era dura ma, del resto, nessuna vetta si raggiunge senza fatica. A volte arrivava lo scoramento, la delusione; qualcuno non voleva, qualcuno non capiva... È stato difficile fin dal principio, da quando, cioè, gettammo – don Angelo ed io - le basi per la nascita di questo gruppo nel corso di una serata in compagnia, una delle tante trascorse insieme. Mio marito ed io lo conoscemmo una domenica di settembre del 1990 al Bar dell'Oratorio. Partecipammo ad una riunione per i genitori dei cresimandi, la prima tenuta da lui, da pochi mesi parroco del paese; mescolati alle tante persone presenti ci sentimmo improvvisamente salutare così: “Ciao, io sono don Angelo. Voi chi siete?”. Fummo subito conquistati da questo giovane sacerdote che si proponeva in maniera così informale, moderna, schietta ed intelligente... Che dava ed esigeva il “tu”. La simpatia reciproca fu immediata ed in totale condivisione d'intenti nacque fra noi una solida amicizia. Don Angelo ci aveva gettato l'amo senza che ce ne accorgessimo. Interessandosi a noi per conoscerci meglio, cercava di far venir fuori ciò che maggiormente ci motivava: la cultura, la musica, la prosa… Si parlava molto, con spontaneità, dei reciproci trascorsi: studi, lavoro, scelte di vita, e via discorrendo. Una sera a cena, dunque, mentre stavamo chiacchierando del più e del meno, raccontò di alcune sue esperienze passate in veste di “attore”. Ad un tratto mi buttò lì, come per caso: “Che ne dici se facessimo qualcosa di nuovo qui in paese? Qualche recita magari, per ravvivare l'ambiente? Dai, pensaci... ma non dirmi di no.” E via con le idee e le proposte. Era una sera di gennaio del 1991. Dapprima mi sentii persa, inadatta a rivestire il ruolo di coordinatrice e tenere le fila di un gruppo d'azione. Allo stesso tempo, però, non volevo gettare la spugna ancor prima di mettermi alla prova. Accolsi quindi la proposta e, con una discreta dose di sana incoscienza, mi buttai. Per prima cosa bisognava cercare persone che accettassero di avviare questo percorso con noi: un'impresa alquanto ardua in un piccolo paese di provincia, dove pochissimi vogliono esporsi e… “farsi vedere”, come diceva lui. Io, “forestiera” per i più, chiesi subito aiuto a due amici molto cari a don Angelo e a me, con già esperienza di spettacolo alle spalle, ai quali si aggiunsero, poco dopo, altri due amici e mio marito, che accettò non per particolari inclinazioni artistiche, bensì per amore per me e devota amicizia per don Angelo. E il gruppo partì. Don Angelo ci seguiva con trepidazione, consigliando, suggerendo discretamente e, soprattutto, operando con molta diplomazia in parrocchia per far accettare al Consiglio Pastorale l'idea di questa iniziativa nascente, del tutto conforme alla sua innovativa linea educativa e che avrebbe coinvolto persone quasi del tutto estranee all'ormai collaudato e metodico universo oratoriano del paese. Lottò parecchio, perché fu assai contrastato anche l'ingresso di gente “non di chiesa”, poco praticante e, in alcuni casi, anche poco credente. Con tenacia, incuranti di chiacchiere, pettegolezzi e malumori che fingevamo di non vedere, di non sentire, alla fine riuscimmo a far comprendere che gli operatori del Bene non sono solo coloro i quali si inginocchiano, dato che Dio si serve di tutti e la casa di Dio è aperta a tutti. Il risultato, alla fine, ci premiò: dopo un anno di fatiche il gruppo teatrale poteva contare più di trenta persone concretamente operative e debuttò con uno spettacolo, assai semplice, di poesie e canzoni. Tappezzammo il paese di locandine, Don Angelo cominciò un mese prima a dare avvisi dopo ogni Messa raccomandando, come lui solo sapeva fare, di partecipare. All'apertura del teatro ci trovammo tutti stipati dietro il sipario, le gambe che tremavano, a spiare se entrava qualcuno... Poi, incuriosito, il pubblico infine arrivò. Don Angelo sfoderò un savoir-faire da perfetto anfitrione, presentò gruppo e spettacolo, e sedette in prima fila, su una delle vecchie poltroncine sgangherate. Confessò poi che tremavano le ginocchia pure a lui... Fu un successo. Anche i più critici diventarono, col tempo, nostri sostenitori; qualcuno entrò addirittura a far parte del gruppo. Il vecchio teatro fu restaurato e reso agibile da lodevoli interventi di esperti volontari; tutte le spese furono sostenute con l'autotassazione ed il lavoro, molto spesso gratuito, di professionisti appassionatisi al nostro obbiettivo. Piano piano risorse e diventò la nostra “tana”, dove effettuare riunioni, prove e... bisbocce dopolavoro alle quali il nostro Don se ne guardava bene dal mancare. Angelo, infatti, amava la buona tavola, i dolci fatti in casa, la spensieratezza e l'allegria di momenti in compagnia di persone amiche. Dietro il piacere di un buffet c'era, sempre, il progetto educativo: queste occasioni servivano per stare insieme, parlarsi, conoscersi e capirsi. Diceva: “Dopo tutto, anche Gesù amava molto le riunioni conviviali: le cose migliori e più importanti le fece proprio a tavola...”. Rideva. Non volle mai essere il nostro “capo”. Il gruppo doveva essere in grado di camminare da solo, di mettere in pratica ed eseguire da solo quel progetto che gli stava tanto a cuore e che noi facemmo nostro. Ad un certo punto, lasciammo finalmente la connotazione un po' circense che avevamo all'inizio e ci demmo un'organizzazione precisa: c'erano gli attori e le addette alle pulizie, i tecnici, le sarte e gli amministratori, il regista, il direttore, eccetera. Ad ognuno il proprio compito, ma tutti uguali nell'operare per il Bene; nessuno era, o poteva sentirsi, più importante dell'altro, perché ognuno doveva, con pieno rispetto dei singoli ruoli, portare avanti il lavoro con ordine, efficienza ed umiltà. Chi ne aveva la possibilità cercava cose nuove da apportare, sia sulla scena, sia nel gruppo; i testi da rappresentare dovevano avere una morale, niente volgarità, né di linguaggio, né di sentimenti e, soprattutto, trasmettere curiosità ed interesse per la cultura. Si doveva collaborare in serenità e fiducia con tutti, fuori e dentro la compagnia, anche quando non era cosa facile. In ognuno di noi ci doveva essere la volontà di crescere, come gruppo, “insieme”: se volontà, serenità, fiducia fossero venute a mancare, l'esistere del gruppo stesso – così come era nei pensieri di don Angelo – non avrebbe avuto più alcun senso. Sarebbe stato solo un gruppo sterile, fine a se stesso; avrebbe avuto pregevoli finalità, forse, ma sarebbe stato senza “anima”. Anche noi, come tutte le persone coinvolte in qualsiasi suo progetto, dovevamo portare agli altri il “volto di Cristo”: un volto di fratellanza, di carità, di speranza... Il fatto di interpretare commedie divertenti e di far ridere la gente non doveva condurre fuori strada: il nostro compito non era meno importante e fondamentale di quello dei catechisti, dei volontari o degli altri educatori. Divertendo, dovevamo raggiungere lo scopo di aiutare le persone ad uscire di casa ed aggregarsi, vivendo l'oratorio come una grande famiglia. Io, chiamata a condurre questo gruppo, molto spesso mi sentivo sola nelle decisioni difficili, assalita da mille incertezze e, a volte, ostilità. Lo cercavo e lui era sempre lì, disponibile ad ascoltare. Ma non voleva dettare soluzioni: ormai avevo compreso e condiviso il suo programma e, di conseguenza, avrei dovuto anche trovare le vie per eseguirlo. Diceva: “Io non devo e non posso essere sempre qui a dire ciò che voglio e ciò che si deve fare; ti ho dato la responsabilità perché ti credo capace. Devi farcela da sola, perché un giorno io potrei andare via, non essere più qui... Dovrete essere in grado di proseguire il cammino da soli, per garantire il servizio reso non a me, bensì alla Comunità.” Poi si liberava del ruolo ufficiale di Parroco per vestire i panni dell'amico: sapeva ascoltare e consigliare con discrezione. Mi sosteneva esortandomi ad avere pazienza, ad insistere, ad avere fiducia in me stessa e Fede in Dio che, prima o poi, mi avrebbe fornito le giuste opportunità per sistemare le cose. E così andammo avanti. Nel frattempo altre persone si erano aggiunte al gruppo ed eravamo ormai triplicati di numero. La gente del paese e dei dintorni – eravamo ormai “famosi” - rispondeva bene alle nostre iniziative: il teatro era sempre pienissimo, il pubblico si divertiva molto e partecipava donando offerte che andavano nelle casse dell'oratorio. Dietro le quinte don Angelo gongolava soddisfatto e fiero della sua “creatura”. Ma c'era ancora molto da fare... Dalle piccole e semplici recite passammo, nel giro di un altro anno, ad una vera e propria commedia. Tutto un inverno passato a cercare e leggere copioni, a costruire con entusiasmo questo spettacolo che ci avrebbe reso “compagnia teatrale” a tutti gli effetti. Don Angelo era il nostro fan più acceso: passava sempre a dare un'occhiatina alle prove, spesso si sedeva in fondo, nel buio della sala quasi per non essere notato, un po' scivolato in avanti sulla poltroncina con la testa appoggiata allo schienale. Non perdeva una battuta, si divertiva, diceva che eravamo bravi e gridava: “Forza, gagliardi, continuate così !”. E poi la sua benedizione sul palcoscenico a sipario chiuso prima del debutto, la sua emozione mal celata, il brindisi finale per festeggiare un altro obbiettivo raggiunto e d'augurio per l'inizio del prossimo. Intanto si cresceva, scegliendo copioni un po' più di spessore ed un poco più impegnativi. Alla prosa si aggiunsero concerti, serate culturali a tema e, infine, i Musicals per i giovani che, piano piano, si erano avvicinati con curiosità; molti di loro entrarono a far parte del gruppo. Desiderava che portassimo i nostri lavori in altre zone, “in tournèe”, per divertire e per aiutare altre parrocchie. Non voleva che chiedessimo soldi; bastava una libera offerta, quando c'era. Alcuni ci offrivano un ricco buffet a fine spettacolo, altri, a volte, nulla… Ma andava bene così. “I nostri problemi sono anche i problemi degli altri – sosteneva – non è giusto pensare solo al proprio campicello”. Il “chachet” lo chiedevamo solo quando venivamo invitati da Comuni, Enti statali o privati: una boccata d'ossigeno, che ci serviva per pagare autonomamente tutte le spese. Altri programmi, altre idee da attuare per il futuro erano già lì, dietro l'angolo. Ed anche stavolta si doveva trovare qualche cosa di nuovo che ci consentisse di migliorare in qualità. Era l'inizio dell'estate del 1993. All'improvviso lo vidi pallido e particolarmente affaticato. Un giorno mi disse: “Sono un po' stanco, sai. Non so perché. Forse il caldo…, chissà. Mi riposerò dopo il Grest ...”. Il destino, una malattia fulminante, se lo portarono via in pochi giorni d'agosto.
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