Note biografiche
Rita Vittozzi è nata alla Spezia, e da molti anni risiede a Santa Margherita Ligure, in provincia di Genova. Appassionata di lavori femminili, si è dedicata per molto tempo all’arte del tombolo, esponendo con successo i suoi lavori in molte mostre tematiche di artigianato tradizionale. Da qualche tempo si dedica alla scrittura con racconti in cui rievoca eventi del passato, familiari e personali, che hanno lasciato un segno profondo nella sua vita. Con le sue opere ha già ottenuti riconoscimenti lusinghieri in concorsi letterari e un suo lungo racconto, “Tutto è cominciato…” è stato dato alle stampe, devolvendo il ricavato della vendita in beneficenza, mentre altri sono inclusi in importanti antologie letterarie. Di recente pubblicazione è il romanzo breve “C’era una volta… la guerra”, pubblicato dalle Edizioni del Porticciolo.
Note critiche
Con tocchi leggeri, con un sobrio e partecipe realismo, infarcito di grande sentimento e di un pathos intenso nei momenti culminanti della narrazione, Rita Vittozzi racconta le cose che le stanno più a cuore, le vicende del quotidiano, della gente comune, presente e passata. Un modo, quello scelto dalla scrittrice ligure, di ripercorrere la vita, sua, dei suoi cari, e di chi la circonda, con uno sguardo partecipe, sempre umanamente solidale. Una scrittura piana e molto comunicativa, la sua, che sa sfiorare con grazia argomenti anche dolorosi e puntualizzare con sincerità le note più profonde della sua interiorità, senza dimenticare l’esistenza delle altrui esigenze e dei sentimenti delle altre persone. In una concisa ed intensa esposizione riesce sempre a dare consistenza e significato a legami, a sentimenti, a eventi di per sé molto normali, ma che divengono fondamentali quando sono visti come componenti indissolubili del vivere di tutti gli individui.
Letture
Un bacio al cioccolato
Le tavole imbandite, l’odore inebriante del cioccolato,ricordavano il richiamo del flauto magico . La folla si accalcava in attesa del proprio turno, le fette di pane, con sopra spalmato ogni tipo di cioccolato, spiccavano nei piatti sulle tovaglie bianche:ad ogni persona che si avvicinava per la degustazione ne spettavano due. Che bella iniziativa quella di dedicare una domenica, da Sarzana a Portovenere, al cioccolato ! Golosa come sono non potevo mancare a un simile appuntamento,a La Spezia. Stavo per addentare la mia fetta di pane con il gianduia quando… Non è possibile! Ma sei proprio tu! Non sei cambiata.. ma non mi riconosci? Scusa sai, ma non sono molto fisionomista e la memoria poi… Ma come, non ti ricordi? Sono Cesare! Cesare? Santo cielo! Ho un tuffo al cuore, quante volte ho sognato questo momento! Quanti anni sono passati , quaranta? Per l’esattezza quarantasei, io ne avevo sedici e tu diciannove,e non dirmi che sono sempre la stessa perché non è così: peso dieci chili più di allora, sono bionda mentre ero nera come l’ebano, e ho le rughe, non so come hai fatto a riconoscermi! Sarà perché in tutti questi anni non ho smesso di pensarti e sapessi quante volte ho sperato di rivederti. Anch’io ho pensato spesso a te, a come sarebbe stata la mia vita se mio padre, pace all’anima sua, non mi avesse imposto quella scelta:”O viene a parlare con me o non lo vedi più”. Allora usava così ed io, troppo sottomessa, non ho osato ribellarmi e gli ho dato ascolto. Ero troppo giovane, dovevo fare il militare, come potevo prendermi un impegno così? Lo so, infatti non ce l’ho mai avuta con te, ho continuato ad amarti per tanto tempo… Poi dopo due anni ho conosciuto quello che è diventato mio marito: non ti ho mai più rivisto eppure, questa, non è una grande città! Ti ricordi quell’unica sera che siamo andati al cinema con tuo fratello che ci faceva da chaperon? Come potrei non ricordarla.. Tu arrivasti con tre baci Perugina, uno per ciascuno, ricordo ancora cosa c’era scritto nel mio bigliettino:”Dal giorno che baci una donna non sai più di che colore sono i suoi occhi”. Non mi ricordo il titolo del film, ma seduta tra te e mio fratello, tenni le braccia conserte per tutto il tempo, tu pure, così da stare con le mani intrecciate senza farci vedere. Le mie mani odoravano di candeggina, perché in quel periodo mia madre non stava bene e facevo io il bucato. Strano come certe cose si imprimano nella mente! Ti sembrerà impossibile ma ancora oggi quando sento quell’odore affiora il ricordo. Ma dimmi che fai? Dove abiti? Sono sola e vivo con mia madre in riviera, ho una figlia che vive in un’altra città..e tu? Io sono nonno di due pesti che in questo momento, insieme a mia moglie, si staranno chiedendo dove sono finito! Beh! Tutto sommato non puoi lamentarti! Vai adesso, non farti aspettare! Non vuoi darmi il tuo numero di cellulare? Così qualche volta ti chiamo! No, è meglio di no, teniamoci il nostro ricordo, non siamo più quelli di allora. Allora ciao,posso darti un bacio? Certo! Un bacio Perugina! Mentre si allontana penso che è proprio strana la vita, mi era persino venuto in mente di scrivere a “ c’è posta per te” poi naturalmente non ne ho mai fatto nulla e oggi per il cioccolato sono tornata nella città dove sono nata e vissuta per ventitre anni e ho incontrato il mio primo amore! Nel piatto ho ancora le mie due fette di pane, riprendo a gustare il mio gianduia con un po’ di rimpianto per quel passato che improvvisamente mi aveva riportato alla gioventù; ma il cioccolato non combatte la tristezza? Posso sempre mangiarne altre due!
La prima volta, Benvenuto Daniele
Se avete voglia di ascoltarmi ho anch’io qualche cosa da dire. Non è vero niente! Non è vero che lì dentro non si sente nulla, che è un mondo tranquillo e che finché si sta lì si è al sicuro, tutte balle! Ora vi racconto come vanno le cose. Innanzi tutto fin dai primi momenti devi abituarti a stare nell’acqua, e questo è gradevole, non si fa nessuna fatica e ti puoi muovere liberamente; mano a mano che cresci però e aumenti di volume non ci stai più così largo. I primi mesi la mia mamma vomitava di continuo, non era piacevole neppure per me, perché ogni volta che questo accadeva, anche dentro la pancia si rovesciava tutto, e a me veniva il mal di mare, ma passati tre o quattro mesi è tornata la calma o almeno così credevo! Nel mio mondo acquatico stavo abbastanza bene; facevo capriole, tiravo calci a un immaginario pallone, e quando attraverso la mamma sentivo la musica mi agitavo a più non posso, così lei con dei piccoli colpetti affettuosi mi faceva capire che stavo esagerando ed io mi calmavo subito, ci intendevamo a meraviglia ! Per un po’ me ne stavo tranquillo, mi succhiavo il pollice, e cercando di immaginare il suo viso mi addormentavo. Avevo imparato a distinguere quando era la mano della mamma ad appoggiarsi sulla pancia per sentirmi, o quella del papà. Per quanto leggera, quella del papà aveva una pressione più forte e quando sentivo che era lui restavo immobile, così ci rimaneva molto male ed io mi divertivo un mondo. Un giorno, durante una passeggiata, la mamma si ritrovò per terra senza neanche sapere come, altro che lì dentro sei al sicuro! Ho sentito una botta che mi ha rintronato per un bel po’: dopo i controlli del caso il medico ha detto che non era successo nulla di grave perché non stavo ancora con la testa all’ingiù, quindi di stare tranquilli. Gli ultimi mesi passarono senza grossi problemi,a parte che io ormai stavo sempre a testa in giù e non avevo più tanto spazio per muovermi, non è che la posizione fosse poi tanto comoda, quando un giorno tutto ad un tratto… L’acqua in cui galleggiavo cominciò a scarseggiare e ad intervalli regolari, senza che potessi fare nulla per oppormi, venni spinto con forza verso un tunnel da cui passavo a stento. Non ci ho messo molto a capire che se collaboravo, la faccenda si poteva concludere prima, così ho cominciato a spingere con tutte le mie forze, ma che fatica! Avanzavo poco alla volta per un tempo che mi pareva infinito finché con un ultimo sforzo sono uscito all’aperto. Perché tutti gridavano? Intorno a me c’era un trambusto indescrivibile, istintivamente ho aperto la bocca, non l’avessi mai fatto! Un bruciore terribile mi è sceso per la gola fino ai polmoni ed ho urlato con tutto il fiato che avevo. A uno che stava nel lettino vicino è andata anche peggio, lo hanno messo a testa in giù e l’hanno sculacciato ben bene perché non piangeva, ero capitato proprio in un bel posto! Dopo poco mi hanno infilato un tubicino nel naso e mi hanno rigirato in tutti i modi; ho provato rimpianto per la pancia della mamma e per un attimo ho desiderato tornare là dentro,ma ecco che due braccia con dolcezza mi accolgono e finalmente vedo quella che tante volte ho cercato di immaginare: quella brunetta niente male era dunque la mia mamma? Stavo cercando di metterla bene a fuoco quand’ecco che un tipo entra di corsa mentre due infermiere cercavano invano di fermarlo, per prima cosa bacia la brunetta, poi mi prende in braccio; non sa tenermi tanto bene, mi sembra un po’ imbranato, lo guardo, la mamma è più bella, cosa ci avrà trovato in uno così! Sono ancora fasciato in un asciugamano ma adesso come faccio, mi scappa la pipì, aiuto! la faccio sulla sua giacca e lui… finge di sorridere ma si arrabbia molto! A questo punto è arrivata un’ infermiera che mi ha tuffato in una vaschetta per il bagno, ah questo si che mi piace! Poi mi ha vestito e riportato dalla brunetta mentre strillavo a più non posso perché con tutti quei passaggi mi era anche venuta fame: quando ero dentro la pancia tutto avveniva in modo automatico ma adesso ? Niente paura, la mia mamma è fornita di due cose gonfie e morbide che hanno una specie di beccuccio, succhiando da quello esce un liquido dolciastro e molto buono, così ho capito subito che quando piango la mamma mi fa succhiare e la cosa mi piace tantissimo. Beh per essere appena nato ne avevo già visto di cose! La solita infermiera poi mi è venuta a riprendere, mi ha sistemato in un carrello assieme ad altri come me e mi ha portato in un posto chiamato “Nursery”, dove c’erano tante culle una a fianco all’altra: in alcune c’era la copertina rosa, in altre celeste. Facevano tutti una gran confusione e le infermiere perdevano la pazienza, non facevano altro che cambiarci il pannolino perché dopo aver preso il latte quasi subito scaricavamo qualcosa che non aveva un buon odore ma almeno passava il male alla pancia , chissà il mio papà come sarebbe stato contento visto che questa operazione sarebbe toccata a lui! Era stato lui a dire orgoglioso alla mamma: “ a te il latte, a me i pannolini.” Ecco , questo sono io, finalmente a casa con papà e mamma, per la prima volta ho visto la mia cameretta, c’era una grossa scritta: “BENVENUTO DANIELE” ma tanto per un bel po’ ho intenzione di dormire nel lettone!!!!!
Anch’io
Mi manchi. Non mi rendevo conto di quanto fossi importante per me, della bella persona che eri, con quei modi gentili di signore d’altri tempi, di come fossero “ giusti” i tuoi noiosi discorsi sul come andava la politica in quel momento, sull’andamento della vita in genere. Non avevi un gran titolo di studio, ma eri molto intelligente e ti eri fatto una cultura da autodidatta, leggendo e lavorando sodo, guadagnandoti la stima di tutti, colleghi e superiori. Il tuo è stato un bel lavoro; a me sembrava affascinante e da piccola ascoltavo rapita quando raccontavi del mare in tempesta che sentivi dalla cameretta dove alloggiavi ospite del guardiano del faro. Riparavi i fari danneggiati o con problemi di funzionamento, e questo era un lavoro molto importante per me anche se voleva dire che spesso dovevi assentarti per missioni che ti costringevano lontano dalla famiglia, in porti lontani o sperdute isole. Aspettavo impaziente il tuo ritorno, la mamma ci leggeva le lettere che scrivevi, (che bello se ci fosse stato il cellulare, ma che dico, non avevamo neanche il telefono) nelle quali ci descrivevi così bene i luoghi dove ti trovavi, che mi sembrava di vederli. D’estate il sole ti cuoceva la pelle e ti ricordo abbronzatissimo mentre mi stringevi forte forte in un abbraccio quando ti saltavo al collo felice del tuo rientro. Poi aprivi la valigia, c’era sempre qualcosa per noi: giocattoli, ma anche leccornie che i fanalisti mandavano a noi bambini. Imparavano a conoscerci attraverso le foto; in quelle lunghe sere quando la nostalgia diventava più acuta e cercavi di colmarla parlando di noi, dei tuoi due figli, un maschio e una femmina. Il tempo passa e la bambina è ormai un’adolescente che vuole affermare la propria autonomia: la bella intesa dell’infanzia si incrina e il conflitto generazionale sembra offuscare per un attimo il cielo sereno degli anni passati. Avrei capito molto più tardi che quello che io giudicavo un modo ottuso, e forse lo era, di comportarti, era il solo che conoscevi per proteggermi dalle delusioni che inevitabilmente avrei dovuto affrontare. Purtroppo questo grande amore non ha potuto evitare l’esperienza del fallimento del mio matrimonio e del conseguente divorzio, e la naturale soluzione di una convivenza per dare modo a te e alla mamma di accudire l’adorata nipotina mentre io ero al lavoro. Non sono state rose e fiori, una figlia adulta e con un’esperienza così alle spalle non era facile da capire con la tua mentalità, e non pochi sono stati i nostri scontri, ma tu per me sei sempre stato un punto fermo, anche se forse mai ho saputo dimostrartelo. La tua malattia, il tuo lungo ricovero, ti avevano improvvisamente invecchiato, eri costretto a camminare con il bastone, il mio bel papà abbronzato dove era finito? I tuoi discorsi li giudicavo noiosi e prosaici, certe volte ti zittivo, tu mi dicevi che anch’io sarei arrivata ad essere così, alla tua età. Dentro di me però era ancora intatto tutto il bene che ti volevo; si sa, si cresce, si crede di sapere tutto e di non avere più bisogno dei nostri “vecchi”; le difficoltà quotidiane ci rendono nervosi, la pazienza una qualità che perdiamo strada facendo, ma tu non te la prendevi, anzi no, una volta ti ho fatto piangere per una rispostaccia, ma perdonavi sempre: il tuo era l’amore di un padre. Quella mattina ero entrata da poco nel negozio dove lavoravo, quando la telefonata di mamma agitatissima mi dà un brutto presentimento: “Vieni a casa, papà non sta bene”. Corro, quando ti vedo capisco che non c’è un minuto da perdere, dottore, ambulanza, ospedale. Già mi fanno capire che le speranze sono poche, trasferimento in altro ospedale, corsa in taxi dietro all’ambulanza e un pensiero fisso, una muta preghiera: “Dio fa che sia ancora vivo. Fammi parlare con lui ancora una volta!”. Sapevo che non potevo sperare di più. Ripenso spesso a quel giorno, ti rivedo in quel letto collegato alla macchina, ma cosciente. Mi parli, mi dici che mi stai lasciando, che sai che non ce la farai. Non riesco a mentire, piango e ti do tanti baci. Il medico si avvicina con una flebo: “ Lo mettiamo sotto morfina”. Mi devo allontanare: “Papà, ti voglio tanto bene”. “Anch’io”.
Il brano è contenuto nella raccolta di pensieri e testimonianze “Caro papà…” edito nel febbraio 2011 per Le Edizioni del Porticciolo
Un romanzo breve di Rita Vittozzi
C’era una volta la guerra…
… Siamo tutti cresciuti a robuste dosi di racconti di guerra, che ci incuriosivano, talvolta ci divertivano, anche se, con l’adolescenza, ci venivano a noia, come acutamente nota Rita, perché ci sembrava che quel passato non ci appartenesse, mentre guardavamo diritti verso il futuro. Poi, i racconti sono cessati. È finita, travolta dalla vita moderna, quella voglia di raccontare e raccontarsi di cui parla Italo Calvino nella prefazione al suo primo romanzo, “I sentieri dei nidi di ragno”, che si ambienta proprio nella lotta partigiana. È finita con quello schermo pieno di immagini, che riempie le serate zittendo tutti coloro che prendono l’avvio per percorrere il sentiero dei ricordi da qualche notizia buttata lì per dovere di cronaca, o per commemorare qualche evento, e non per vera partecipazione. Invece, Rita ha lasciato parlare, e ne è nato questo racconto, o meglio, questo romanzo breve, sì, ma denso, pieno di intrecci, come si conviene ad ogni romanzo che si rispetti. Ha lasciato parlare perché, per una strana combinazione delle emozioni, ha fatto prevalere il sentimento e la tenerezza, piuttosto che la noia e la consuetudine. Così la madre ha potuto raccontare la guerra, la sua guerra, ben inteso, ma che è pur sempre una parte del tutto. Perché, stiamo ben attenti a non cadere nell’indifferenza, la guerra non va considerata un elenco di battaglie, con relative date, ma un puzzle, in cui fatti grandi e piccoli si intrecciano, in cui i detentori del potere, militare o politico che sia, devono fare i conti con gli uomini comuni. La guerra non è fatta solo dagli eroi che passano sui libri di storia, ma dalle persone che, innocenti, indifese, inermi, patiscono la fame, il freddo, la paura, rischiano la morte per disegni più grandi di loro…
[Dalla Prefazione di Rina Gambini]
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