Giuliana Colella |
Note biografiche
Note critiche
La narrazione di Giuliana Colella scorre leggera e agile, facile alla comprensione e piacevole alla lettura: doti considerate innate, per un narratore, ma che celano una continua attenzione, un lavoro incessante di ricerca di una perfezione formale, che non vada ad intaccare la linearità e la purezza dello stile. La scelta, forse innata, ma sicuramente frutto di meditazione, di un lessico di forte comunicazione, immediato e ripulito da qualsiasi eccesso, pur conservando l’eleganza di fondo del linguaggio, imprime ai racconti un andamento molto scorrevole e veloce. I protagonisti di questi racconti sono sviscerati dal profondo, con particolare attenzione ai moti interiori che ne ispirano sentimenti ed azioni. Protagonisti prevalentemente femminili, in quanto l’autrice ha saputo osservare da vicino l’animo della donna di oggi; anche quando si tratta di uomini, però, il suo sguardo è capace di approfondire con inusuale concretezza un inconscio che non appartiene alla sua personale caratteristica. Le situazioni che vengono a delinearsi nei racconti dell’autrice pescarese sono estremamente attuali, quasi contingenti, e vanno a toccare da vicino il vivere quotidiano. Da qui nascono una serie di situazioni o di intrecci imprevedibili, ch’ella sa descrivere con sottile acume psicologico e con una ironia gentile che maschera l’acuta sofferenza dell’esistenza. Una lezione di equilibrio e di sobrietà, da cui si evince l’autenticità della sua vocazione letteraria. Recensioni“...Da una attenta lettura, infatti, si può rilevare un progetto-oggetto-azione, dove la pratica linguistico-contenutistica, mai compiaciuta delle belle forme, per quanto il dettato sia sempre formalmente impeccabile, vuol porre all’attenzione il malessere esistenziale nel suo farsi, attraverso storie d’amore dell’attuale società, secondo una linea di percorribilità diacronica entro sé e da sé dei vari personaggi calati in territorialità reali, nella constatazione, anche da parte dell’autrice, delle contraddizioni insite nell’attuale sistema di esistenza, dove si avverte l’impossibilità di una profonda modifica della realtà contestuale stessa. Il testo si evolve in racconti eterogenei che comprendono tempi diversi e diverse frammentazioni in strutture e sviluppi organici magmatici e psichici, colti in varie sfaccettature, dove è l’amore a prevalere, anche se secondo diverse dinamiche di interlocuzione e di ascolto e secondo un “Ludus” che anima gli stessi componimenti, che non vuole essere schermo di acquiescenza, bensì testimonianza e rappresentazione di una dinamica del sentimento, intesa e fraintesa e sempre in agguato nella realtà, dove spesso c’è dramma, ma anche sezioni più apparentemente pacate e tutta una umanità smarrita, testimone di se stessa, di avventure culturali ed etiche spesso di negazione, alcune volte colte nell’antinomia eros-società.... LIA BRONZI – Prefazione a “Inquietudine ed altri racconti”
LettureIl mio mondoRicordo benissimo il giorno in cui tornai nella vecchia casa. Si era nella prima quindicina di Giugno e le giornate erano già calde, quasi afose. Di prima mattina avevo preso la mia decisione: sarei partita, senza salutare nessuno. In fretta avevo raccolto qualche abito e degli indumenti intimi e li avevo messi senza grazia nella mia vecchia valigia. Facevo tutte le cose quasi di corsa come per impedire a me stessa di pensare, di riflettere. Nessuno mi avrebbe cercata, lo sapevo. Certo non i miei genitori, che si erano sempre disinteressati di me, né tanto meno Sirio che era uscito così bruscamente dalla mia vita. Meglio così, mi dicevo. In fondo, non desideravo altro che stare sola e la vecchia casa mi avrebbe certo accontentata. Sorgeva al centro di un giardino coltivato essenzialmente ad ulivi e ad alberi da frutto, in una posizione alquanto appartata rispetto alle altre abitazioni. Appariva come chiusa in una sua nobile bellezza. Si trattava di una struttura in pietra a due piani che da un lato terminava con una specie di torretta. Ciò le conferiva un aspetto alquanto medioevale che, fin da bambina, mi aveva attratto. Fra quelle vecchie mura, immerse nella verde campagna ligure, avevano abitato la mia nonna materna e la vecchia Maria. A loro due ero stata affidata ogniqualvolta la mia presenza diveniva per i miei genitori troppo ingombrante, cosa questa che accadeva abbastanza di frequente. Per loro ero solo un impiccio di cui sbarazzarsi non appena possibile.Consapevole di essere considerata più che altro un peso, crebbi in una mia solitudine selvatica, appena mitigata dall’affetto che per me nutrivano le due vecchie donne. Fabia, la nonna, era una vecchia dritta e vigorosa, che incuteva rispetto e soggezione. Abituata a comandare, era ferma nelle sue decisioni, incapace di cedimenti. Tuttavia aveva, a suo modo, un debole per me che esprimeva attraverso la cura con cui si dedicava alla mia educazione. Praticamente sono stata allevata da lei. Avevamo ben poco in comune. Priva di qualsiasi curiosità intellettuale, non l’ho mai vista con un libro in mano, mentre io ho sempre amato la lettura. Ogni volta che mi vedeva leggere, mi guardava con sospetto. Unico suo interesse era il giardino: ne conosceva ogni cespuglio, ogni albero, ogni fiore. Nulla le sfuggiva. Era un giardino stupendo, fiabesco, smagliante di colori. Spesso, verso l’ora del tramonto, mi invitava a passeggiarvi. Io accettavo di buon grado, perché solo allora, in quel mare di fiori, di arbusti e di alberi, la vedevo uscire dalla sua abituale austerità e trasformarsi. Sembrava un’altra. Si soffermava dinanzi ad ogni ramo, ad ogni foglia, per verificarne lo stato di salute o per aspirarne la sottile fragranza e, nel far ciò, appariva pervasa da una sua gioia segreta che riusciva in parte a trasmettermi. Il mio amore per la natura lo debbo a lei. Ogni tanto arrivava in villa mia madre. Aveva sempre un’aria affannata ed ogni volta ci annunziava di essere solo di passaggio. Rimaneva una notte, poi l’indomani ci salutava e partiva. Partendo lasciava una scia di profumo che mi infastidiva. Ormai ero abituata agli odori della terra e delle piante e non ero in grado di apprezzare gli artificiosi profumi creati dall’uomo. Una sera, durante una delle rare visite di mia madre, sentii la nonna gridare: «Sara sta bene in questa casa. é meglio che stia qui piuttosto che saperla affidata a te ed a quello scriteriato di tuo marito. D’altra parte - aggiunse - l’ho già regolarmente iscritta a scuola; quindi ogni decisione è rimandata all’anno prossimo». La mattina dopo non fiatai. La nonna aveva un viso più serio del solito e Maria non faceva altro che osservarla preoccupata. Quest’ultima era al servizio della nonna da tempo immemorabile ed aveva con lei un rapporto quasi simbiotico: serva e compagna fidata, era una presenza insostituibile e preziosa. Si occupava soprattutto di cucina e le sue marmellate erano favolose. A suo modo mi viziava. Preparava spesso una composta di frutta e cioccolato che era una vera golosità e che mi piaceva molto. Me la portava in camera con una guarnizione di biscotti, mentre stavo facendo i compiti. Mi offriva quelle prelibatezze con un sorriso dolcissimo, poi scompariva. Nel giardino c’era un piccolo fabbricato, anch’esso in pietra, in cui abitavano il giardiniere e la moglie. Non avevano figli. A volte, non sapendo con chi parlare, mi intrattenevo con loro. Carmela, la moglie del giardiniere, era una giovane dalle forme procaci e prorompenti, sempre allegra. La mattina veniva alla villa per fare le pulizie e, quando mi vedeva, mi scoccava sulle guance un rumoroso bacio. Lo faceva di nascosto della nonna che non voleva che alcuno mi toccasse e questo era il nostro piccolo segreto. Aveva una sua vitalità animale che mi attraeva. Avevo solo undici anni, quando, scoprendosi un seno, mi mostrò un livido di colore bluastro. «Me lo ha fatto Antonio stanotte. - disse - è tanto irruente» e rise. Io rimasi come intontita. Non conoscevo i segreti dell’amore e mi pareva strano che una moglie potesse sorridere delle violenze subite ad opera del marito. Qualcosa mi sfuggiva, ma non sapevo cosa. Alla fine decisi che Carmela era una sciocca e divenni piuttosto fredda con lei. Ero però rimasta turbata dal suo seno bianco e sodo. Avrei voluto toccarlo così come toccavo i frutti che pendevano maturi dagli alberi. L’indomani chiesi a Maria: «Perché i mariti di notte picchiano le mogli?». Maria rimase un attimo interdetta, quindi mi domandò: «Chi te lo ha detto?». «Carmela mi ha mostrato un grosso livido su un suo seno. - risposi - Glielo ha fatto di notte Antonio». «Carmela è una stupida» sentenziò brusca la vecchia Maria. Poi, addolcendo la voce, aggiunse: «Gli uomini, a volte, fanno delle cose strane e questa è una di quelle». La risposta mi lasciò scarsamente soddisfatta, ma preferii tacere.La nonna, nell’educarmi, si ispirava spesso alla natura. «Tu sei come una pianta. - mi diceva - Presto germoglierai ed il tuo corpo si trasformerà. La sua metamorfosi sarà una delle maraviglie della natura». Io l’ascoltavo turbata e mi chiedevo se un giorno avrei avuto anch’io due seni grossi e duri come quelli di Carmela. Andavo a scuola nella vicina Brescia, ma la mia scontrosità di carattere mi aveva preservato da tutte le maliziose confidenze che, per solito, caratterizzano i rapporti fra adolescenti. Tutto quello che sapevo lo avevo appreso dai libri e dalla bocca della nonna. Se avevo delle curiosità, le tenevo per me. Ogni sera, prima di andare a letto, mi soffermavo a guardare i miei due capezzoli da cui un giorno sarebbero dovuti sbocciare come frutti maturi i miei due seni. Attendevo con ansia la trasformazione di cui mi aveva parlato la nonna.Capitava, a volte, che mi sentissi triste e trascurata. Allora, in preda a malumore, mi ritiravo nel mio angolo preferito, una sorta di chiosco naturale, formato da un fitto intrecciarsi di rami. Lì la vegetazione era così folta che nei giorni di pioggia mi riparava persino dall’acqua. Sedevo su un tronco e, ad un tratto, una pace misteriosa scendeva in me e mi dava come una sensazione di pienezza. Dimenticavo allora ogni cruccio ed avevo una segreta percezione del mio essere. In quei momenti mi sentivo parte della natura. Un giorno, senza alcun preavviso, giunse mio padre. Non lo vedevo da diverso tempo. La nonna lo accolse con un’occhiata di freddo disprezzo. Non lo aveva mai potuto soffrire. Lui le disse: «Fabia, sarai finalmente contenta. Daria ed io ci siamo separati. Sono venuto per salutare Sara». Aveva parlato in fretta come se l’informarci della fine del suo matrimonio fosse per lui solo un compito da dover assolvere nel più breve tempo possibile. Se avesse potuto, avrebbe volentieri tirato un respiro di sollievo. Io ero ormai divenuta un’adolescente, ma non ero ancora in grado di comprendere la misteriosità dei rapporti che intercorrono fra un uomo ed una donna. Ero tuttavia arrivata a capire che fra mio padre e mia madre c’era stato ben poco in comune. Si erano voluti sposare a dispetto delle loro diversità ed ora ne pagavano le conseguenze. Aggiunse: «Riparto subito. Non so quando ci rivedremo». Accolsi questa notizia senza grande sofferenza. Praticamente conoscevo mio padre solo come persona fisica, null’altro. Non potevo rimpiangerlo. Al momento dei saluti ricambiai freddamente il suo abbraccio. Due giorni dopo giunse mia madre. L’avevo immaginata sofferente e smagrita, ma dovetti ricredermi. Appena la vidi, pensai: «è innamorata». Non mi sbagliavo. Appariva in forma smagliante ed, a tratti, sembrava ringiovanita. Il suo nuovo compagno si chiamava Oscar ed operava nel mondo dell’arte. Durante i giorni in cui rimase con noi, mia madre non fece altro che parlare di gallerie, di mostre e di pittura. Sembrava un’invasata. Nella sua memoria non c’era più traccia di mio padre. Era fatta così. Viveva la vita in maniera inquieta, seguendo di volta in volta i suoi impulsi emotivi. Infine un giorno arrivò anche Oscar. Pernottava nell’albergo del paese più vicino, ma la sera veniva a prendere mia madre ed usciva con lei. La riportava alla villa a tarda notte. La nonna viveva questa seconda stagione amorosa della figlia con sguardo freddamente critico. La disapprovava, ma taceva. Non taceva però il suo viso che era un libro aperto. Ella era naturale come il giardino. Il nuovo amore di mia madre ebbe una conseguenza: non si parlò più della possibilità che io tornassi a vivere con lei. Non sarebbe stato opportuno. Questa decisione riuscì a rendere la nonna meno severa e più indulgente con la figlia. Al momento della sua partenza la salutò con un certo calore e giunse persino ad avere un sorriso per Oscar. Io rimasi con la nonna e con Maria in quello che ormai era divenuto il “mio”mondo.Dovetti abbandonarlo solo quando giunse il momento di iscrivermi all’università. La nonna aveva deciso che sarei andata a Milano. Al momento di partire avevo al mio attivo la lettura di molti libri ed una grande ignoranza della vita. Ero insomma rimasta la ragazza selvatica che amava arrampicarsi sugli alberi per poi contemplare dall’alto le bellezze della natura. Tuttavia l’idea di uscire da villa Fabia per andare in una bella e grande città mi inebriava. Mi sarei iscritta alla facoltà di Scienze naturali. Due giorni prima della partenza la nonna mi chiamò in disparte e mi disse: «Sara, un giorno questa villa con il giardino ti apparterrà. Tu l’ami come me. Nessuno potrà togliertela. Te l’ho donata fin da quando eri bambina. Ho scritto tutto nel testamento». Mentre parlava, pensava probabilmente a mia madre che giudicava una “scervellata”, capace, alla sua morte, di vendere la casa ed il giardino. «Daria è un’inquieta. - mi aveva detto una volta - Non ha mai sopportato di vivere in villa perché non è in grado di amare l’armonia della natura». Era vero. Mia madre detestava il silenzio e la pace che vi regnavano. Ogni volta, appena arrivata, pensava già a come fuggirne. In fondo, amava solo sé stessa, ma in maniera sbagliata.Partii con il cuore gonfio di emozione, perché, per la prima volta, conoscevo la tristezza del distacco. Una volta a Milano, fui subito presa dagli studi e dal mio desiderio di fare presto. Volevo essere in regola con gli esami, per laurearmi nel tempo prestabilito. Condividevo un piccolo appartamento con una giovane sarda, piuttosto libera e disinibita. Si chiamava Mara ed usciva con un giovane di nome Ambrogio. Spesso trascorreva i fine settimana con lui. Fu lei a presentarmi Sirio. Accadde una sera ai primi di Ottobre, quando l’aria, ancora mite e dolce, invitava a fare passeggiate. Ero ormai iscritta al terzo anno universitario e fino a quel momento ero riuscita a mantenere le mie promesse. Avevo studiato tutto il giorno e mi sentivo stanca. Mara riuscì a trascinarmi fuori, facendomi per una volta dimenticare le abitudini di villa Fabia, in virtù delle quali andavo a letto, al più tardi, alle dieci. Quella sera però non potei rifiutarmi. Uscimmo in quattro, perché Ambrogio aveva portato con sé un amico, uno studente del quarto anno di ingegneria. Si chiamava Sirio. Fin dal momento delle presentazioni sembrò interessato alla mia persona. Il suo sguardo, apparentemente svagato e sonnolento, si era più volte posato su di me, con un’insistenza che mi aveva turbato. Aveva un viso dai lineamenti marcati, labbra carnose. Andammo tutti e quattro al cinema a vedere un vecchio film con Meryl Streep. Durante la proiezione della pellicola Sirio con fare naturale mise il suo braccio intorno alle mie fragili spalle e mi strinse lievemente a sé. Mi fece un certo effetto. Sentii come un brivido percorrere il mio corpo ed una sorta di dolce languore pervadermi. Non avevo mai provato una sensazione del genere. Al termine del film avevo già acconsentito a rivederlo l’indomani. Fu così che cominciò la nostra storia. Io prima di allora non avevo mai amato. Ai tempi del liceo mi ero lasciata baciare da un compagno, piuttosto rozzo ed inesperto, ma vi avevo acconsentito solo per curiosità. Ne avevo riportato una sensazione abbastanza spiacevole. Si chiamava Enea e, nel baciarmi, il suo respiro era divenuto affannoso. Ad un tratto, aveva sfiorato con mano incerta i miei seni, poi li aveva afferrati quasi con rabbia. Io per un po’ lo avevo lasciato fare incuriosita, poi mi ero ritratta e lo avevo respinto. Durante quel goffo amplesso non avevo avuto alcun sussulto. Ero rimasta quasi impassibile. Enea, al mio rifiuto, aveva gridato: «Sei una stupida!», ma io, per tutta risposta, me ne ero andata, gridandogli a mia volta: «Visto che sono una stupida, questi stupidi giochi vedi di farli con un’altra compagna». Il suo bacio, il primo datomi da un maschio, non aveva avuto per me alcun significato. Tornata a casa, avevo preso un libro e mi ero messa a leggere, quasi dimentica dell’accaduto. Con Sirio le cose andarono invece ben diversamente. Fin dall’inizio, come per incanto, si stabilì fra di noi un’intesa misteriosa, quasi fisica. Ricordo nitidamente ogni momento del nostro primo incontro. Venne a prendermi alle sette di sera sotto casa. Appena mi vide, mi abbracciò con forza ed io lasciai che lo facesse, mentre il brivido, ben noto, tornava a percorrere il mio corpo. Per un po’ camminammo senza meta, presi dalla gioia di essere insieme, poi, come vinti dalla stanchezza, ci sedemmo su una panchina, situata lungo un viale ombroso e solitario. Appena seduti, le nostre bocche si trovarono unite da un bacio che divenne subito, quasi fosse scoccata una scintilla elettrica, violento ed avido. Io mi sentivo come svuotata e priva di forze. Un senso di calore mi pervadeva dalla nuca ai talloni, procurandomi una sorta di dolce malessere. Sirio mi baciava ed intanto la sua mano si smarriva in audaci carezze. Non appena tornammo a respirare, io gli dissi: «Sei il primo uomo che bacio». Era una bugia a metà. Avevo baciato Enea, è vero, ma si era trattato di tutt’altra cosa. Sirio rimase sorpreso. «Oh Sara!» esclamò. Mi strinse fra le braccia e mi baciò tutto il viso, il collo con baci leggeri e trepidi. La sua tenerezza mi diede una piacevole commozione. Divenni audace, dissi. «Se vuoi, stasera puoi salire nel mio appartamento. La mia amica è partita per due giorni. Saremo liberi e sicuri di non essere disturbati». «Davvero posso venire?» chiese lui con voce commossa. «Sì» risposi in un soffio». Divenni l’amante di Sirio con un’audacia innocente, senza pensare alle conseguenze dell’amore. Il primo amplesso mi lasciò felice. Sirio era un amante ardente e dolce nello stesso tempo. Avvinta a lui, sentivo che una parte di me era appagata e godeva in maniera profonda. Dopo l’amore parlammo a lungo. Seppi che proveniva da un piccolo paese del meridione e che era di origini modeste. Aveva molti progetti e sognava il successo. Il mio amore per Sirio durò più di un anno. Con lui imparai la voluttà, assaporando il piacere dei sensi. Nessuno di noi due pensò mai all’avvenire. Pensavamo solo ad amare. Ero felice o almeno credevo di esserlo. Di giorno studiavo e frequentavo l’università, di sera amavo. Avevo preso l’abitudine di recarmi nel suo minuscolo appartamento, situato al pianterreno di un grande caseggiato. Si componeva solo della camera da letto e di un piccolo ambiente che fungeva da cucina e da tinello, ma aveva un vantaggio: aveva un ingresso indipendente che sottraeva le mie visite alla curiosità degli altri inquilini. L’amore mi aveva in parte trasformata: i miei lineamenti si erano come illanguiditi, mentre i miei occhi apparivano illuminati da una luce segreta. Durante il giorno non riuscivo a pensare ad altro che al momento dell’incontro amoroso. Ogni volta l’amplesso mi lasciava come sfinita ed immemore, quasi in uno stato di felicità inerte. L’amore mi aveva fatto quasi dimenticare villa Fabia. Per tre anni, nei periodi di vacanza, vi ero tornata con emozione, ma, da quando avevo conosciuto Sirio, avevo cominciato a trincerarmi dietro delle scuse per evitare di lasciare Milano. Motivi per rimanere non mancavano. Avevo ormai iniziato a lavorare alla tesi e ciò richiedeva un impegno che, in parte, mi giustificava. Ogni tanto sentivo per telefono la nonna. Si informava sui miei studi, sparava a zero sull’orrore della vita in città, poi passava a parlarmi del giardino, delle sue piante, della loro condizione di salute. Ne parlava come se fossero delle persone. Parlava raramente di sé. Fui raggiunta dalla notizia della sua morte, mentre ero intenta a studiare quello che sarebbe stato il mio ultimo esame. Se ne era andata, all’improvviso, mi comunicò fra i singhiozzi Maria, senza un gemito, senza un lamento. Nulla aveva lasciato presagirne la fine. Presi il primo treno che potei trovare e a tarda sera mi trovai a villa Fabia. La trovai adagiata e composta nel suo antico letto di noce. La morte era scesa su di lei senza alterarne le sembianze: aveva conservato la sua espressione di sempre. Pensai che avrei avuto ancora tante cose da dirle, ma che ormai ciò non sarebbe stato più possibile. Questo pensiero mi lacerava e non mi dava pace. Al suo funerale rividi mia madre che mi sembrò sciupata ed invecchiata. Non era stato il lutto a ridurla così. Le cose fra lei ed Oscar non andavano più bene e ciò la faceva soffrire. Invano cercai delle parole per confortarla. Non era aiutabile.La nonna fu sepolta vicino al nonno, nel cimitero del paese, in quel lembo di terra in cui era nata e cresciuta. La natura, che aveva tanto amato, l’aveva come riaccolta in sé. Dinanzi alla sua tomba piansi lacrime abbondanti. Il pianto era l’unica dimostrazione che potevo darle del mio dolore. All’improvviso, capivo che mi era venuta a mancare l’unica vera amica, il solo punto di riferimento della mia vita. Maria seguì la nonna nella tomba a pochi mesi di distanza. Non me ne stupii. Mi sembrò quasi naturale che l’una avesse raggiunto l’altra. Questo secondo lutto mi lasciò come stordita. Avevo in poco tempo perduto le due donne che avevano costituito nell’infanzia e nell’adolescenza tutto il mio mondo.Tornata a Milano, vissi in uno stato di smarrimento che mi impediva quasi di agire. Non riuscivo più né a studiare né a leggere. Sirio cercò di confortarmi, ma con scarsi risultati. Non ne era capace, perché non era mai riuscito a leggere nella mia anima segreta. Nonostante la nostra frequentazione amorosa, anzi proprio a causa di essa, molte cose di me gli erano ignote. Aveva, si può dire, un rapporto di tipo quasi esclusivo con il mio corpo, al di là del quale non c’era per lui alcun’altra forma di interesse. La ricerca del piacere, che perseguiva quasi con furore, gli impediva di andare oltre il puro godimento dei sensi. In fondo, io per lui ero rimasta una sconosciuta. Fu nel momento del dolore che riuscii a percepire la sua estraneità. A tratti, avevo anzi la sensazione che il mio dolore lo infastidisse.A Giugno seppi di essere incinta. Il test di gravidanza non fece che confermare quello che inizialmente era stato solo un sospetto. La notizia non mi procurò né sconcerto né sgomento, solo un senso di lieta meraviglia. La sera mi recai da Sirio con una misteriosa felicità nel viso. Ero ansiosa di dargli la notizia. Nel comunicargliela la mia voce tremava per l’emozione. Sirio mi ascoltò sempre più turbato ed, alla fine, guardandomi fisso negli occhi, disse: «Sara, è chiaro che tu il bambino non lo puoi avere». Tacque, poi aggiunse: «Conosco un bravo dottore che te ne libererà in pochi minuti». Disse proprio così e, mentre parlava, sembrava soddisfatto della soluzione proposta. Io l’avevo ascoltato come inebetita. Nelle sue parole non vi era stato nulla che lo riconducesse a me. Mi aveva totalmente esclusa dai suoi pensieri. Ero stata abbandonata a me stessa. Lo fissavo e non vedevo traccia di emozione sul suo volto. Sembrava solo dominato dal desiderio di rimuovere un problema, nient’altro. Era tutto molto triste. Sentii la sua voce soggiungere: «Sara, comprendimi. Accettando la tua gravidanza, libertà e spensieratezza non ci apparterrebbero più. Nulla sarebbe più come prima, neanche il nostro rapporto. Io non voglio che ciò accada». Lo guardavo e mi sembrava di leggere nei suoi pensieri, di vedermi attraverso i suoi occhi. Vedevo una Sara, resa goffa ed appesantita dalla gravidanza, forse non più in grado di soddisfare i suoi appetiti amorosi. Forse sarei stata solo un problema per lui. Provai, all’improvviso, il desiderio di andarmene, di fuggire, ma, prima di ubbidire a quell’impulso, udii la mia voce dire freddamente: «Io non abortisco. Questo bambino nascerà». Le parole mi erano uscite di bocca quasi a mia insaputa, lasciandomi come stupefatta, ma, subito dopo averle pronunziate, avevo provato un senso di leggerezza, quasi di liberazione. «Il bambino nascerà» ripetei con forza, quasi urlando ed in quel momento seppi di desiderarlo selvaggiamente. «Non ho bisogno di te. - aggiunsi - Desidero solo non vederti mai più». Era vero. Ad un tratto, la sua presenza mi appariva assolutamente fastidiosa ed intollerabile. L’amore, che avevo provato per lui, si era come dissolto per lasciare il posto ad una sorta di gelida indifferenza che sconfinava nella ripulsa. Sirio avrebbe voluto replicare, ma io non gliene diedi il tempo. «Addio» gli dissi e me ne andai. L’ultima cosa che vidi fu la sua espressione di incredula meraviglia. Non saprò mai cosa avrebbe voluto dirmi. Appena fuori, respirai a pieni polmoni l’aria fresca della sera come se avessi dovuto farne una provvista. Tutto mi appariva, all’improvviso, semplice e chiaro. Non era stato l’amore a legare Sirio a me, quanto una sorta di ubriacatura dei sensi. Non c’era stato altro da parte sua: durante la nostra frequentazione non mi aveva mai detto che mi amava. Ero stata io ad offrirmi a lui e lui mi aveva presa godendo del mio amore fatto di esaltazione e di innocenza. Ora questo bimbo inatteso ci aveva, ad un tratto, messi l’uno di fronte all’altro e ci aveva costretti a guardare dentro di noi. Non avevo rimpianti, solo amarezza. Sirio apparteneva già al passato. Sentivo, all’improvviso, il desiderio di isolarmi, di recuperare me stessa. Sapevo quello che avrei fatto. Sarei tornata a villa Fabia. Non sarei potuta andare in nessun altro luogo. Partii di prima mattina, non senza aver lasciato un biglietto a Mara che si trovava fuori Milano con il suo Ambrogio. In esso fui volutamente vaga e generica. Non desideravo fornire spiegazioni né lasciare un mio recapito. Arrivai alla villa che era quasi ora di pranzo. Carmela ed Antonio, che, dopo la morte della nonna, avevano continuato a vivere nel piccolo fabbricato in giardino, mi vennero incontro felici e stupiti. Erano divenuti gli unici abitanti all’interno della proprietà ed avevano conservato le loro mansioni di sempre: Antonio aveva cura del giardino, mentre Carmela si occupava della villa, tenendola pulita ed arieggiata. Non li avevo avvisati del mio arrivo. Mi era piaciuto tornare, all’improvviso, come avevo sempre fatto, durante i miei primi anni universitari. Era bello agire e comportarsi come se nulla fosse cambiato. «Signorina che gioia rivederla!» mi disse Carmela e subito mi abbracciò con forza. Mi strinse a sé con la sua istintività di sempre e ciò mi scaldò il cuore. Ero davvero tornata a casa.Mi guardai intorno ed il giardino, che insieme alla nonna avevo tanto amato, sembrò venirmi incontro con i suoi odori, con le sue fragranze. Nulla era cambiato. Era quello di sempre con i suoi colori ed i suoi angoli segreti. Sentii, ad un tratto, una felicità misteriosa pervadermi e dilagare in me. Era una sensazione intraducibile. Per un po’ tacqui, assaporando con le nari la dolcezza dell’aria. Antonio si era allontanato per portare in casa la mia valigia. Ad un tratto, mi volsi verso Carmela e le dissi: «Carmela, sono incinta». Carmela non disse nulla. Si limitò a sorridermi. Non fece commenti. Una nascita era per lei solo un fatto naturale da accogliere con gioia. Non aveva curiosità da appagare. Dopo alcuni minuti di silenzio osservò: «Qui il bambino crescerà bene. L’aria è buona» e fu tutto. La guardai con affetto. L’essenzialità del suo dire rifletteva la sua rustica semplicità, la sua spontaneità, non contaminata da malizia. Le dissi: «Carmela, mentre prepari qualcosa per il pranzo, vado a fare un giro in giardino». Ero, ad un tratto, come sopraffatta dalla smania di immergermi nel verde delle sue piante, di inoltrarmi nei suoi sentieri. Mi avviai, dopo averla salutata, verso la parte più interna di esso, senza neppure concedermi il tempo necessario per entrare in casa e rinfrescarmi. Lungo il tragitto mi sorpresi, proprio come faceva la nonna, a soffermarmi dinanzi ad ogni pianta per esaminarla con sguardo amoroso. Ciascuna di esse mi apparteneva, aveva radici nel mio cuore prima che nella terra. Nel mese di Giugno il giardino era tutto un tripudio di colori, uno sprigionarsi di sottili aromi che aspiravo come inebriata, con segreta voluttà. Arrivai fino al “mio” chiosco, quello in cui avevo amato rifugiarmi nei momenti di solitudine e di malinconia. Vi penetrai con animo turbato e, in preda ai ricordi, sedetti su una panchina in pietra, collocata nella parte più interna. Era una specie di stanza silvestre, dove l’ombra era verde anche quando i raggi del sole riuscivano a passare attraverso il suo fitto fogliame. In essa mi sentii subito, come per incanto, in pace. Una sorta di quiete irreale si impadronì di me, procurandomi una sensazione di indicibile benessere. Mi sentivo, all’improvviso, leggera, quasi senza peso, sottratta alle pene del vivere quotidiano. Tacevo, senza pensare, assaporando in quella solitudine odorosa i diversi aromi che provenivano dal giardino. Mi sembrava quasi che la natura pulsasse e respirasse in me fino ad infondermi la sua segreta armonia. Un umidore, che pareva pianto, si raccolse nei miei occhi, senza convertirsi in lacrime. Non era pianto, ma solo un empito di commozione, una sorta di fluido di felicità. Non avrei mai più lasciato quel lembo di terra, dove avevo trascorso gran parte della mia vita, dove avevo imparato ad amare la natura, a contemplarne l’innocente bellezza. Quello era il mio mondo. Mai più lo avrei abbandonato. Sarei tornata a Milano solo per discutere la tesi di laurea, poi mi sarei definitivamente stabilita a villa Fabia. Con un po’ di fortuna avrei trovato lavoro in uno dei comuni più vicini. Era questa la decisione giusta. La nonna avrebbe approvato. Ne avevo la consolante certezza.Ero rimasta, a lungo, immobile, smarrita nell’ascolto di me stessa, immersa in un silenzio rotto solo dal fruscio degli insetti o dalla rapida corsa di qualche lucertola. A riscuotermi dal mio incantato torpore fu la voce di Carmela che gridava: «Signorina, il pranzo è pronto». Mi alzai dalla pietra, resa tiepida dalla calura estiva e mi avviai verso la villa. Non tirava un alito di vento. Il giardino nell’ora canicolare appariva come addormentato. Le piante, ferme in una loro sonnolenta immobilità, attendevano il refrigerio della sera. Pure in quella loro staticità io avvertivo il fremito di una vita misteriosa che mi affascinava. Anche in me c’era un mistero che nessuno mai aveva decifrato. Era la mia anima segreta che attendeva solo di essere capita ed amata. Un giorno forse qualcuno avrebbe saputo leggere in essa ed io non mi sarei sentita più sola. Non era solo una speranza. Il senso di pace, che era sceso in me, colmava il mio cuore di una fiduciosa attesa, mi invitava a pensieri lietiNella villa trovai Carmela che aveva apparecchiato e che mi attendeva sorridendo. «Signorina, - mi disse - ora è lei la padrona. Mi dica se ha trovato tutto a posto». «Sì, Carmela. - le risposi - Ogni cosa è in ordine. La casa è pulita e fresca ed il giardino è una meraviglia. Oggi ho “parlato” con le piante come faceva la nonna e ciò mi ha procurato un misterioso senso di felicità. A volte, penso che lei sia ancora qui, nel giardino ed allora la sua perdita mi sembra meno dura, meno dolorosa». Carmela mi aveva seguito attenta, senza parlare, manifestamente commossa. Aveva amato, ma anche temuto la nonna ed ora la sua anima semplice, alle mie parole, si sentiva sopraffatta dal ricordo di lei. La guardai e, di slancio, l’abbracciai. «Carmela, - le dissi - con la testa sulla sua spalla - questo bambino nascerà e crescerà qui. Il giardino lo accoglierà come ha già accolto me ed esso sarà la sua prima scuola di vita. Imparerà ad amarne la bellezza e a rispettare la natura. Sarò una brava madre». Non erano solo parole, era una promessa. Mi sentivo intimamente in pace con me stessa e con il mondo. L’indomani avrei telefonato a mia madre, ma non prima. Non potevo sciupare l’armonia che avevo nel cuore con il racconto che mi avrebbe fatto delle sue inquietudini. Con animo lieto, sedetti a tavola e cominciai a mangiare con voracità giovanile.
Un ricordo azzurro Io penso a colori. Perciò anche i miei ricordi sono a colori. Si muovono velocemente nel grande caleidoscopio della memoria e mi tengono compagnia durante la giornata. Rossi sono i ricordi negativi, azzurri quelli legati al sogno ed al sentimento. Michele è un mio ricordo azzurro. Alla sua voce, che continua a parlare dentro di me, mi aggrappo nei momenti di solitudine. Che sono tanti e che attraversano la mia vita come piccoli solchi irrequieti. «Parlami di te» mi chiedeva ed io gli raccontavo di me e del mio vivere. Lasciavo la malinconia fuori della porta, paga di avere qualcuno che si interessasse a me. Ma lui non era qualcuno. Era l’amico di sempre, il solo a cui permettessi di entrare nei miei pensieri. Per il resto il vuoto. I miei genitori solo due comparse che riuscivano ad essere assenti anche quando erano presenti. Debbono avermi messa al mondo per errore, ne sono convinta. Comunque senza amore. PubblicazioniGiuliana COLELLA, Inquietudine ed altri racconti, Editore Bastogi
Ciò che mi preme, invece, è rilevare come la letteratura poliziesca annoveri una lunga lista di autori di pregio e una sola donna, Agatha Christie, che, pur fedele alle regole del “giallo”, ha immesso nei suoi numerosi romanzi un carattere tipicamente femminile, consistente nell’approfondimento psicologico dei personaggi e nella loro perfetta caratterizzazione, oltre alla predilezione per protagoniste donne, fino a creare addirittura una sorta di investigatrice, la famosa Miss Marple. Potremmo dire, a questo punto, salvo l’illustre eccezione, che il complesso mondo del delitto e dell’investigazione mal si adatti alla mentalità della donna scrittrice, se non venisse a contraddirci questa raccolta di racconti, con i quali l’autrice pescarese ha voluto coniugare le tematiche a lei care ponendole in un contesto appassionante e misterioso. Ha saputo creare atmosfere intriganti con ambientazioni realistiche molto ben delineate, intrecci coinvolgenti risolti in ragionamenti stringenti, ma soprattutto ha dato vita, come sempre nei suoi racconti, a personaggi ben caratterizzati e di spessore psicologico e sociologico, a cui si aggiunge la novità, cioè questa visione decisamente originale per lei del mondo del delitto. Dalla prefazione di Rina Gambini
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