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Francesco Viola - Ernesto Rayper a Volpiano
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CRONACHE DEL XIX SECOLO

ERNESTO  RAYPER, UN  PITTORE  GENOVESE  A  VOLPIANO

di  FRANCESCO  VIOLA

 

Volpiano nella seconda metà del XIX secolo è ancora tutta racchiusa nel perimetro murario del ricetto medievale, con strade concentriche attorno al nucleo centrale della piazza, sotto la collina dei ruderi del castello, su cui si affacciano la Chiesa Parrocchiale, il Palazzo Comunale, alcuni palazzi di famiglie nobili e un’ala o mercato coperto. Dalla piazza partono parecchie vie che, per le porte storiche, conducono fuori dal Borgo, sulla Riva, come dicono i Volpianesi. Anzi, le Rive sarebbero due: la Riva bassa, che costeggia le antiche mura e l’abitato, e la Riva alta dalla parte opposta, verso la campagna. Tra le due Rive c’è l’antico fossato che, non essendo più utile alla difesa del ricetto, è  stato trasformato in orti, giardini, pascoli e vi sono stati costruiti anche alcuni fabbricati agricoli. Le altre vie del ricetto, molto irregolari, sono trasversali e concentriche, e da questa particolarità si può dedurre che l’abitato si sia formato gradualmente, in epoca altomedievale, con aggiunte di file di case attorno al nucleo centrale. Le antiche porte (Rueglio, Corbellera, Crosia e Piccola di Crosia o del Lupo), sopravvissute alle mine e alle cannonate del Brissac, durante l’assedio del 1555, e utilizzate fino a tutto il 1700, in epoca napoleonica (inizio del XIX secolo) furono demolite perché considerate troppo fatiscenti e minaccianti rovinosi crolli. In tal modo la via Graffignana divenne via Carlo Alberto, la via del Rueglio divenne via Garibaldi, le vie di Corbellera e Colombaro divennero via Umberto I, la via Crosia divenne via Roma, la via del Fornelletto divenne via Emanuele Filiberto, il Sarmetto, via Carlo Botta, la piazza Comunale, piazza Vittorio Emanuele II, la via di Porta del Lupo, via Lamarmora, la via Salassa divenne via Cavour, la via del Vernone, via Re Arduino, la piazzetta del mercato, piazza Amedeo di Savoia.

Le strade del ricetto concentrico sono tutte acciottolate o sterrate (le cosiddette strade bianche o strade di polvere), con al centro un rigagnolo per lo scarico dell’acqua piovana o delle acque reflue. I fabbricati sono quasi tutti rurali (a parte qualche palazzo nobiliare sei-settecentesco), composti da casa di civile abitazione, stalla o ovile con porcilaia, fienile, tettoie, letamaio e pozzo. Solitamente sono riuniti intorno ad un cortile, o aia, in comune con altri proprietari (“simp” in volpianese), in cui si accede attraverso un passo carraio comune. Anche il pozzo è in comune. La corte comune (detta anche comunione) viene utilizzata per la essiccazione delle granaglie e la battitura dei cereali (frumento), la coltivazione di ortaggi e l’allevamento di animali da cortile (polli, tacchini, conigli). Il “simp” può essere considerato una microstruttura economica e sociale quasi autosufficiente. I proprietari dei fabbricati e dei terreni coltivabili esterni al ricetto concentrico, essendo titolari di particelle catastali (“particula”) sono detti “particolari” e, di conseguenza, questo termine viene esteso a tutti gli agricoltori possidenti.

La popolazione che nel 1812 era di 3.405 abitanti, dal 1861 al 1881 passa da 4.171 a 5.022 abitanti, quasi tutti dimoranti entro il borgo murato. Fuori di Circonvallazione (la Riva) si contano poche cascine o case rurali e coloniche isolate, disposte molto irregolarmente nella campagna e lungo le strade di comunicazione verso altri comuni del circondario. Tra la popolazione volpianese sono rappresentate quasi tutte le classi sociali, a partire da alcune famiglie nobili (i conti Messea e i conti Ripa di Meana) o benestanti (le famiglie Gedda, Arnaud, Fourrat, Oliveri, Merlini, Balbis, senatore Bertetti, Morelli e altre), titolari di rendite fondiarie o finanziarie e delle cariche pubbliche locali, sempre molto attive nel sostenere economicamente la fondazione di opere sociali e assistenziali a beneficio della popolazione. Pochissimi sono i professionisti e anche gli esercenti di attività commerciale non sono in numero rilevante, in quanto le botteghe di rivendita al minuto sono alquanto limitate e non vi sono grandi empori o magazzini. Gli artigiani, o artieri, risultano essere una classe sociale ed economica ben più numerosa, pur essendo soprattutto dediti a produrre beni atti a soddisfare unicamente  i bisogni della popolazione del paese, quali attrezzi agricoli, basti e finimenti per animali da tiro, carri e carriaggi. Gli operai e i manovali salariati formano una classe sociale molto numerosa. Si tratta di lavoranti giornalieri o stagionali disposti a trasferirsi anche fuori paese, secondo la necessità: le ragazze negli opifici industriali di tessitura e filatura, i giovani e gli uomini nelle grandi imprese di costruzione come braccianti e muratori.

La classe più numerosa ed importante, quella su cui si basa l’economia del paese, è formata dagli agricoltori, coltivatori diretti dei terreni di cui hanno la proprietà fondiaria, i cosiddetti “particolari”, che risiedono solitamente nei “simp” del ricetto concentrico e svolgono la loro attività lavorativa nella campagna circostante. Il territorio di Volpiano, che ha una superficie di 3.495 ettari, si estende per la sua massima parte in pianura e solo per una parte minore, verso ponente, si inerpica sull’altopiano e sui fianchi della collina morenica della Vauda (dove sorgono ancora, e ben visibili, i ruderi del castello distrutto nel 1555), che per questo motivo viene chiamata Vauda di Volpiano. La fertlità dei terreni coltivabili è dovuta al suolo argilloso che compensa molto bene la scarsità di acque per l’irrigazione, dovuta alla presenza di soli due corsi d’acqua nel territorio, il Bendola e il Rio della Vauda. Si è cercato di ovviare all’inconveniente scavando dei pozzi artesiani e anche utilizzando l’acqua di alcuni fontanili, per cui è stata realizzata attraverso la campagna una rete di canali irrigui chiamati Gavi. I terreni pianeggianti coltivati producono in abbondanza foraggi, granaglie, cereali e saggina. Molto intensa è la coltivazione della canapa che viene venduta per la produzione di fibre tessili, telerie, cordami e carta. La Vauda di Volpiano, rimasta per lungo tempo abbandonata perché considerata di natura sterile, nel corso del XIX secolo è stata dissodata e disboscata con buoni risultati e coltivata a vigneti e campi. Così pure fu resa coltivabile gran parte della deserta landa detta Gerbido, che si estende a sud del paese, e che serviva soltanto al pascolo comune. Le attività agricole alimentano un attivo commercio del bestiame, delle granaglie e delle scope di saggina. Tra gli esercizi commerciali nel concentrico assumono buona rilevanza economica le osterie e le locande. Si tratta di attività solitamente gestite in parallelo da famiglie di agricoltori che realizzano in tal modo il tentativo di integrare il magro reddito derivante dalla coltivazione dei campi. I clienti non mancano, siano essi abitanti di Volpiano, soprattutto per le osterie (“ost” o “tampa” in  volpianese), che commercianti e forestieri di passaggio, per le locande (“ubèrge” in volpianese). Tuttavia la distinzione tra osterie e locande non è molto rigida. In effetti quasi tutte le osterie hanno a disposizione alcune stanze per il pernottamento, mentre le locande sono fornite di banco per la mescita e di cucina. Per questo motivo i volpianesi spesso usano indicare indifferentemente con il termine “ubèrge” sia le une che le altre.

Negli anni Sessanta e Settanta del XIX secolo appaiono nelle locande di Volpiano degli insoliti viaggiatori, forestieri di passaggio che si fermano in paese alcuni giorni, vagano per la campagna, soprattutto per la brughiera sull’altopiano della Vauda, tra le rovine del castello, nei boschi e nei terreni dedicati a pascolo. Si portano appresso un’inconsueta attrezzatura: cavalletto, tavolozza, colori, pennelli, tele, sgabello e ombrellone parasole … Sono pittori che dipingono “en plein air”! Nella seconda metà dell’Ottocento nascono nuovi movimenti artistici, conseguenti le esperienze del Romanticismo e del Realismo, che hanno rotto con la tradizione dell’Accademica, introducendo importanti novità, tra le quali la riscoperta della pittura paesaggistica e naturalista, che ha come soggetto ambienti all’aperto, paesi e campagne, ritratti dal vero, riprodotti “en plein air”, all’aria aperta e alla luce naturale. Contribuiscono in modo determinante all’affermarsi di tali movimenti artistici anche alcune invenzioni, quali la macchina fotografica e il tubetto di colore. Quest’ultimo consente ai pittori di potersi spostare per immortalare dal vivo i propri soggetti. Prima i pittori dovevano creare i colori tramite polveri di pigmento e quindi erano costretti a rimanere fermi nei loro laboratori, dando ai loro quadri un’illuminazione artificiale che li rendeva poco realistici. Inoltre gli artisti usano la fotografia per dare ai loro soggetti, paesaggi o ritratti, una struttura di base più precisa e più vicina alla realtà, per poi sbizzarrire la loro creatività nella realizzazione dell’opera pittorica. Questi movimenti, molto interconnessi tra di loro e con continue relazioni interpersonali e di studio tra gli artisti, svincolati da formalismi accademici e liberi di rendere con immediatezza verista ciò che il loro occhio percepisce nel presente, si sviluppano in Francia con gli Impressionisti e in Italia, con i Macchiaioli in Toscana (i cui maggiori esponenti sono Giovanni Fattori, Telemaco Signorini, Silvestro Lega), la Scuola di Rivara in Piemonte e la Scuola grigia o dei Grigi in Liguria.

La cosiddetta Scuola di Rivara fu un gruppo di pittori paesaggistici di varia formazione che dal 1860, per circa venti anni, si ritrovarono a soggiornare e dipingere nella cittadina piemontese di Rivara, nel cuore del Canavese. La scuola, o meglio il cenacolo, si proponeva di ispirarsi al “vero naturale”, in un atteggiamento anti-accademico di rottura con il paesismo di matrice romantica. I pittori, raccolti intorno a Carlo Pittara (Torino, 1836 - Rivara, 1891), fondatore e animatore del gruppo, si trovavano ogni estate, nella località del Canavese, per dipingere insieme “en plein air”. Vi convennero i piemontesi Ernesto Bertea, Vittorio Avondo, Federigo Pastoris di Casalrosso, Casimiro Teja e i rappresentanti della Scuola grigia ligure, cioè Ernesto Rayper, Alberto Issel, lo spagnolo Serafino De Avendaño e il portoghese Alfredo D’Andrade. Da Rivara essi si spostavano anche in altre località del Canavese, tra cui Volpiano, sempre animati dal desiderio di trasporre nelle proprie tele l’immediatezza del “vero” e, quindi, alla continua ricerca di soggetti che associassero a una visione campestre, tra paesaggi bucolici, alberi, fiumi, animali e uomini al lavoro, anche una visione sociale o etica. Esiste una speciale tonalità di verde, detto “verde Rivara”.

Tra gli assidui frequentatori delle locande e delle campagne volpianesi, da cui ha tratto ispirazione per le sue opere, è stato Ernesto Rayper, genovese, (nato a Genova il 1° novembre 1840 e deceduto a Gameragna di Stella il 5 agosto 1873), pittore e incisore, considerato l’indiscusso caposcuola nel rinnovamento della pittura italiana del paesaggio avvenuto nella seconda metà dell’Ottocento. Fondatore della Scuola grigia ligure, fu uno degli animatori della piemontese Scuola di Rivara e frequentatore dei Macchiaioli toscani, tra cui Telemaco Signorini, del quale godette l’amicizia e l’ammirazione. Eminente figura tra gli incisori italiani del suo tempo, i suoi lavori e le sue tecniche sono stati di esempio anche per Giovanni Fattori nella sua attività in questo settore. Nel 1859, dopo gli studi presso i Padri Scolopi, Rayper rinuncia all’università e si iscrive ai corsi dell’Accademia Ligustica delle Belle Arti a Genova ed è allievo del pittore genovese Tammar Luxoro (1825-1899). Si dedica senza esitazione allo studio del paesaggio, trascurando la pittura di quadri storici, che andava allora per la maggiore. Da ricordare che già nel 1855/1856, giovanissimo studente, era entrato in contatto a Firenze con i Macchiaioli del Caffè Michelangelo. Nel 1860 frequenta a Ginevra lo studio del paesaggista svizzero Alexandre Calame (1810-1864), ispiratore di molti artisti liguri e piemontesi dell’epoca. Al ritorno a Genova, esce rapidamente dai canoni della pittura romantica e accademica del Calame e dà corpo a una nuova e personalissima poetica nella raffigurazione della natura, sostenuta da grandissima manualità e raffinata tecnica. Il nuovo percorso artistico si manifesta nel quadro “Stradale presso Ginevra” e diventerà ancora più marcato nelle opere successive.

Nel 1863 prende corpo la Scuola grigia genovese, con Luxoro come il teorico ispiratore e Rayper come l’artista più raffinato e geniale, propugnando un realismo antiaccademico e la pittura all’aria aperta. D’estate le rive del Bormida o le vallate della campagna ligure diventano il loro punto di ritrovo, ed è allora un vedere, come fossero funghi, ombrelli aperti a proteggere dal sole i singoli artisti all’opera. Tra loro discutono e sperimentano nuovi impasti cromatici caratterizzati dai toni chiari, dalle mezze tinte e dalle tinte grigio-argentate, ma soprattutto rifuggono il nero. Da questo nuovo concetto pittorico essi prendono ben presto il nome di Scuola grigia genovese, o dei Grigi.

Negli anni successivi, intorno al 1866 i “Grigi” Ernesto Rayper, Alfredo D’Andrade (1839-1915), Serafino De Avendaño (1838-1916) e Alberto Issel (1848-1926) si uniscono nel Canavese ai pittori piemontesi guidati da Carlo Pittara, dando vita alla Scuola ligure-piemontese di Rivara. In questo gruppo, il Rayper si ritrova ben presto, insieme al Pittara, ad esserne il geniale caposcuola e l’allegro animatore. Viene descritto come “bella persona, amato e ricercato per la sua giovialità”. Nel 1869 a Rivara, recitando in “Otello”, da un critico d’arte presente al fatto, viene descritto “bello e sicuro di sé …; a sentirlo pareva Shakespeare in persona …; a vederlo lo avresti detto il più matto dei buontemponi, e … avreste indovinato”. Dipinti a olio su tela, acquarelli, disegni ed incisioni segnano la progressiva maturazione del pittore che, dando dimostrazione di equilibrio e di spessore artistico notevole, raccoglie i primi significativi riconoscimenti, fin dal 1865, esponendo in galleria, con Silvestro Lega e Telemaco Signorini, alla Promotrice delle Belle Arti di Torino e poi a quella di Genova.

Nel 1870 entra nell’albo dei professori accademici di merito dell’Accademia Ligustica di Belle Arti di Genova. Nello stesso anno, ottiene la medaglia d’oro all’esposizione nazionale di Parma, conferita all’unanimità dalla commissione giudicatrice, di cui è segretario Telemaco Signorini. Sempre nel 1870 diventa socio dell’Accademia torinese e di quella di Urbino. Al 1872 risale la sua ultima esposizione alla Promotrice di Genova. Dal 1871, colpito da un tumore alla lingua, si sposta in diverse regioni d’Italia nella vana ricerca di cure efficaci (di questo periodo tiene uno straziante diario, in cui registra le sconvolgenti tappe della sofferenza provocata dal lento e struggente aggravarsi del male, incurabile ed inesorabile), fino a ritirarsi nel 1873 a Gameragna di Stella, il paese d’origine della madre, dove muore prematuramente il 5 agosto, prima di aver compiuto 33 anni.

La pittura di Ernesto Rayper, come quella della Scuola grigia di cui fu il caposcuola, si caratterizza per i toni delicati, argentei, chiari e sommessi, il rifiuto dei neri e dell’eleganza formale, le infinite sfumature dei verdi, a volte densi e compatti nel sottobosco, a volte vivi o sbiaditi sotto la luce, altre volte giallastri e smorti. L’indiscussa protagonista della sua pittura è la Natura, esplorata e ripresa soprattutto sulle colline genovesi, lungo la riviera, nell’entroterra della Liguria, ma anche a Rivara, presso Carlo Pittara, e a Volpiano, dove opera, nei suoi soggiorni estivi, Antonio Fontanesi (Reggio Emilia, 1818-Torino, 1882, pittore di paesaggi basati sul chiaroscuro, sul contrasto tra grandi zone d’ombra e di luce), nel Canavese, e poi sul Ticino, lungo il Toce, nonché in Toscana, nel Lazio, in Svizzera e in Francia. Meglio forse di altri esegeti, Orlando Grosso (1882-1968), pittore e scrittore, Direttore dell’Ufficio Belle Arti di Genova, caratterizza così la pittura di Rayper: “Ogni suo quadro non è un ritratto della Natura, ma la Natura stessa. Il pittore esprime se stesso, … componendo con naturale armonia i suoi quadri, … allineando fughe di prospettiva, ove gli alberi, i sassi, le case, le pecore, le nuvole, i ruscelli, le persone, le masse umane … pare si muovano come vive”. Delle estati trascorse nel verde Canavese e, in particolare, a Volpiano, ci restano alcune opere, tra le quali un dipinto a olio su tela intitolato “Pascolo presso Volpiano”. In un assolato paesaggio agreste una giovane pastora guarda il suo piccolo gregge di pecore che brucano sotto uno spuntone di roccia dominante la scena. In lontananza appaiono colline velate da foschia mattutina. Il tutto è pervaso dalle varie tonalità di verde di cui il Rayper è maestro.

Si potrebbe pensare che l’ambientazione del dipinto possa essere in uno dei tanti valloni presenti sull’altopiano della Vauda, nello stesso punto in cui è stato ambientato un altro quadro a olio su tela con un titolo simile, “Pascolo verso Volpiano”, dal pittore Alberto Issel. Si tratta di una campagna in pieno sole, dominata dallo stesso spuntone di roccia, in cui una giovane pastora conduce le sue pecore, con visione di colline in lontananza. Probabilmente il pittore Alberto Issel dipinse il suo quadro nello stesso punto, più o meno, in cui operò Ernesto Rayper.

Ma chi era Alberto Issel?

Alberto Issel (nato a Genova il 3 giugno 1848, ivi deceduto il 20 maggio 1926) è stato un pittore e scultore genovese. Nel 1866 iniziò a frequentare i corsi tenuti presso l’Accademia Ligustica da Raffaele Granara (1807-1884), il quale sostenne la sua inclinazione per la pittura di paesaggio, in quegli anni avversata dagli insegnamenti accademici. Nell’estate del 1866 interruppe gli studi per arruolarsi volontario con le truppe garibaldine: partì per il Trentino, ma a causa di una ferita fece precocemente ritorno a Genova. L’esperienza della guerra, se pur breve, lasciò in lui una traccia profonda rilevabile nei dipinti, dove scene di vita militare e soldati sarebbero diventati da allora temi ricorrenti. L’interesse per la pittura dal vero lo condusse a Firenze nel 1867, per partecipare alle lezioni che il pittore ungherese Kàroly Markò teneva all’aperto nella campagna toscana. Frequentando gli incontri al Caffè Michelangelo, entrò in rapporti di studio con i Macchiaioli. Ad interessarlo particolarmente fu l’opera di Giovanni Fattori. Contemporaneo all’esperienza fiorentina fu l’inizio del rapporto con i pittori liguri della cosiddetta Scuola dei Grigi, durato fino al 1878. Con gli amici Tammar Luxoro, Ernesto Rayper, Alfredo D’Andrade frequentò i raduni estivi a Carcare, dove il circolo di pittori si riuniva per dipingere dal vero, all’aria aperta, nella campagna ligure e per dibattere d’arte al locale Caffè Omnibus. A partire dal 1869 fino al 1884 soggiornò ripetutamente a Rivara, dove insieme con i pittori della Scuola grigia, frequentò i paesaggisti piemontesi di Carlo Pittara, mettendo a confronto le varie  esperienze che i due gruppi andavano compiendo sul tema della pittura “en plein air”. E’ questo il periodo in cui Alberto Issel, Ernesto Rayper e altri artisti vennero a Volpiano, e in altri paesi del Canavese, per completare i loro studi dal vero sulla luce e rinnovare la pittura di paesaggio. Tra il 1870 e il 1876 l’Issel  si recò spesso a Roma per soddisfare l’esigenza di confrontarsi con diversi gruppi di artisti e collegare ricerche e dibattiti che animavano le scuole e i circoli toscani, piemontesi, romani e liguri. Nel 1880 fu colpito da una malattia agli occhi, a causa della quale smise di dedicarsi con continuità alla pittura. Il suo interesse si rivolse allora alle arti applicate. Nello stesso anno aprì in Genova un negozio di oggetti d’arte industriale, inizialmente indirizzato alla commercializzazione di manufatti ceramici, poi affiancato da un laboratorio per la produzione di mobili, con un duraturo consenso di pubblico e critica.

Dopo questa breve digressione su Alberto Issel, torniamo ad occuparci di Ernesto Rayper e della sua attività di incisore. Rayper studia incisione presso l’Accademia Ligustica, alla scuola di Raffaele Granara, ottenendo nel 1869 una medaglia fuori classe. Alcuni studiosi cominciano a datare le sue incisioni dal 1867. Sue acqueforti pubblicate dalla rivista “L’Arte in Italia” tra il 1869 e il 1873 hanno suscitato le lodi dei critici più raffinati. Più tardi il già citato pittore Orlando Grosso definirà Rayper “principe degli incisori italiani col Fontanesi”. Anche in questo particolare settore si evidenzia il progressivo distacco dai canoni accademici e la ricerca delle atmosfere, piuttosto che della finezza tecnica, di cui pure era capace. Le incisioni di Rayper si caratterizzano da ampia molteplicità e complessità di segni, magari anche con l’uso della puntasecca, che tendono a dare effetti tonali paragonabili a quelli pittorici. Ancora una volta, si evidenzia la particolare attenzione per gli intrichi del mondo vegetale, con poche presenze di esseri viventi, umani o animali, e con un diffuso senso di malinconia.

La presenza di Ernesto Rayper a Volpiano è testimoniata da due acqueforti del 1871.

La prima è titolata: “Brughiera presso Volpiano”. Si tratta di una incisione eseguita all’acquaforte, rotella, puntasecca e velature su matrice di rame, impressa su carta di Cina applicata su carta forte. L’opera riproduce un dipinto dello stesso incisore Rayper: il quadro fu esposto alla XXX mostra della Promotrice Belle Arti di Torino nel maggio 1871, e venne subito acquistato dal re Umberto I. Di ispirazione fontanesiana è la presenza di una figura umana e di un animale, quasi sperduti in un paesaggio di grande intensità emotiva. L’immagine rappresenta un contadino che, in aperta campagna, sosta accanto ad un bovino al pascolo e osserva in lontananza un uccello rapace che porta in cielo la sua preda.

La seconda è titolata: “Presso Volpiano”. Si tratta di una incisione tecnicamente simile alla precedente, anch’essa eseguita all’acquaforte, rotella, puntasecca e velature su matrice di rame. L’immagine rappresentata può essere localizzata con certezza in uno dei tanti valloni sulla collina della Vauda, presso i ruderi del castello: si vedono in lontananza, tra alcune case del paese, le inconfondibili sagome del campanile in stile bizantino della Parrocchiale e quello in stile barocco della Confraternita, detta anche Chiesa Nuova. Nel vallone, una giovane pastora (che ricorda quella del “Pascolo presso Volpiano”) accudisce ad un piccolo gregge di pecore. Anche in questo caso è evidente l’ispirazione fontanesiana per un paesaggio di grande intensità emotiva.

Per ricordare l’assidua presenza e l’opera artistica di Ernesto Rayper a Volpiano, il Comune, fin dai primi anni Novanta del XX secolo, ha dedicato una strada al pittore ed incisore genovese.