Valerio P. Cremolini - Pittori spezzini nella Grande Guerra |
Valerio P. Cremolini - Pittori spezzini nella Grande Guerra
Su invito dell’allora prefetto della Spezia Giuseppe Forlani ho curato nel 2011 la realizzazione presso il Palazzo del Governo della mostra sugli artisti spezzini, che presero parte alla Grande Guerra. L’evento espositivo, inserito tra le manifestazioni per il 150° Anniversario dell’Unità d’Italia, fu inaugurato il 25 novembre del medesimo anno al termine di un convegno svolto nella Sala “Marmori” della Camera di Commercio. In quella sede, all’introduzione del prefetto Forlani, fecero seguito la conferenza dell’architetto Giorgio Rossini, soprintendente per i Beni architettonici e paesaggistici della Liguria, su La celebrazione dell'Unità d'Italia nei monumenti della Grande Guerra, e gli interventi dell’avvocato Andrea Corradino, presidente della Cassa di Risparmio della Spezia, del professore Giuseppe Benelli, presidente dell’Accademia Lunigianese di Scienze “G.Capellini” e di chi scrive sullo specifico tema della mostra. Il testo che segue è la rielaborazione della mia comunicazione proposta in detto seminario. Ercole S. Aprigliano (1892-1975), Giuseppe Caselli (1893-1976), Antonio Discovolo (1874-1956), Emilio Mantelli (1884-1918), soldati durante la Prima guerra mondiale, sono stati i protagonisti della speciale collettiva accolta dai visitatori con lusinghieri commenti. Per la verità vi fu un’omissione, che mi accingo a riparare in questa circostanza, non avendo incluso il pittore Tucrito Balestri (1886-1973), allievo in giovanissima età di Agostino Fossati (1830-1904) e, in seguito, di Felice Del Santo (1864-1934) e di Luigi Agretti (1877-1937). Balestri ebbe, a sua volta, seguaci di valore, tra cui Bruno Guaschino (1907-1990), Vincenzo Frunzo (1910-1999) e Lodovico Gozzi (1912-1986). Il volume monografico dedicatogli dal nipote ne ripercorre la vita, caratterizzata da “un atteggiamento che talora lo portò all’autoesclusione”.[1] La personalità creativa di Balestri, dichiaratamente anarchico, emerse abbracciando senza indugio i fermenti dell’avanguardia futurista, ma la guerra, con la chiamata alle armi, interruppe ogni possibilità di affermazione. Fu inviato “sul fronte dell'Udinese: a Codroipo, a Cava Zuccherina, a Castagnavizza, ove partecipò alle grandi e sanguinose battaglie dell'Isonzo e della Bainsizza. Catturato dagli Austriaci il 25 Maggio 1917 venne internato nel campo di prigionia di Sigmundsherberg vicino a Vienna; sorte peraltro toccata ad un altro illustre spezzino: Giuseppe Caselli. Durante il periodo di prigionia si mise a costruire delle marionette scolpite velocemente nel legno e poi rivestite con stoffe e spezzoni di pellame di recupero. Messo in piedi il teatrino ottenne il permesso di poter allestire degli spettacoli per divertire i prigionieri italiani. Così costruì un carretto a mano per il trasporto del teatrino, degli scenari e marionette, contenuti in cassette vuote di munizionamento austriaco e passò in tourneé da un Campo Lager all'altro degli esistenti in zona. Il Comando Austriaco, accortosi delle sue capacità pittoriche, lo impiegò per dipingere scenari teatrali, dapprima come aiutante, poi come primo artista. Gli scenari erano quelli degli spettacoli indetti per le truppe e la popolazione locale austriaca. Terminato il conflitto portò in Italia le sue marionette spingendo il carretto, aiutato da alcuni commilitoni, attraverso un lungo percorso che lo riportò in Patria da Ventimiglia. Rientrò al 233° Reggimento di Fanteria, presso il deposito del 21° Reggimento il 1° Marzo I9I9.”[2] La monografia è un sussidio fondamentale per scoprire i vari risvolti della vita di Balestri e la sua interessante attività artistica, aperta con apprezzabili esiti anche alla tecnica dell’affresco. Molti spezzini appresero la sua esistenza nel 2007 in occasione della mostra Futurismi: Aeropittura, Aeropoesia, Architettura del Golfo, che ospitava nel salone della Fondazione Carispe due suoi importanti dipinti, Il fabbro (1922) e Marconi sull’Elettra (1924), entrambi di palese concezione futurista.[3] Artista eclettico, Balestri manifestò la propria professionalità affrontando vari temi, tra cui non pochi scorci paesaggistici del territorio spezzino, eseguiti su commissione e non sempre ben considerati sia dal pittore che dall’autore del libro, perché ritenuti semplici “quadri di maniera”.[4] Tutt’altro vigore è, invece, percepibile nell’olio Gli scarponi della guerra (1919), testimonianza chiaramente autobiografica di una stagione gravida di forti preoccupazioni esistenziali. La tavola richiama l’analogo soggetto, al centro di dispute filosofiche, più volte dipinto da Vincent Van Gogh (1853-1890), assurto a significativo simbolo del povero e amatissimo mondo contadino, celebrato di sovente dal pittore olandese con “un colore espressivo, al massimo dell’intensità, per non sacrificarlo alla forma, ma per rivelarla rafforzando il disegno”.[5] Ritorno al tema del mio intervento per sottolineare che le importanti esposizioni La Grande Guerra degli artisti del 2005 al Museo “Marino Marini” di Firenze, programmata nella ricorrenza del novantesimo anniversario dell’ingresso dell’Italia nel conflitto, presenti anche opere di Caselli, Discovolo e Mantelli, e quella del 2009 Da Baroni a Piacentini – Immagine e memoria della Grande Guerra a Genova e in Liguria, allestita nel Palazzo Reale a Genova, hanno messo in risalto la partecipazione di non pochi celebri artisti al conflitto bellico. “La Grande Guerra - è analisi condivisa - ha prodotto un insieme di materiali quanto mai eterogeneo, capace di spaziare dagli appunti grafici presi frettolosamente in trincea dai pittori-soldati, alle grandi esposizioni d’arte militare organizzate per sostenere il morale della popolazione civile, dalle cartoline e dai manifesti murali alle illustrazioni sui giornali di trincea rivolti alle truppe, dalle vignette satiriche o caricaturali sui quotidiani alle fotografie ufficiali intrise di retorica e propaganda ed alle traduzioni cinematografiche, fino ad arrivare alla rielaborazione del dramma ed alla sua celebrazione attraverso sacrari, cenotafi, monumenti ai caduti”.[6] Nel merito della rassegna fiorentina Marzia Ratti ha rilevato che “la quantità di immagini davvero sorprendente conferma lo statuto di modernità della Grande Guerra, veicolata con campagne informative massicce e, per la prima volta, abbondantemente illustrate”.[7] Tra le drammatiche testimonianze esposte nella rassegna ligure, oggetto di alto credito storico-scientifico, adeguata risonanza hanno avuto quelle di Caselli e di Mantelli. Osservava Franco Sborgi (1944-2013) che “il contatto diretto con il conflitto portò molto spesso gli artisti a redigere con le loro opere una sorta di diario quotidiano delle vicende belliche: dove per quotidiano s’intende una cronaca minima che mette sullo stesso piano l’evento bellico, la morte e la quotidianità del vivere”.[8]
Non avrebbe eluso la Prima guerra mondiale lo scultore Angiolo Del Santo (1882-1938), autore della magnifica Vittoria alata (1923), già collocata nel Palazzo comunale e successivamente disposta al centro del Monumento ai Caduti della Spezia. Del Santo è nel 1901 artigliere volontario, ma, ammalatosi seriamente di bronchite, venne congedato anticipatamente[9]. Le opere di Aprigliano, Balestri, Caselli, Discovolo e Mantelli sono comprese in un esteso album che stimola approfondite riflessioni storiografiche ed estetiche. È una raccolta che allinea pregevoli testimonianze del Novecento dal differente orientamento rese, tra gli altri, da Giacomo Balla (1871-1958), Anselmo Bucci (1887-1955), Carlo Carrà (1881-1966), Luigi Depero (1892-1960), Osvaldo Licini (1894-1958), Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944), Marino Marini (1901-1980), Arturo Martini (1889-1947), Plinio Nomellini (1866-1943), Ottone Rosai (1885-1957), Gino Severini (1883-1966), Mario Sironi (1885-1961), Lorenzo Viani (1882-1936), unitamente ad una compagine ligure di ottimo livello, che annovera, ad esempio, oltre ai nomi già citati, quelli di Giovanni Ardy (1885-1917), Giuseppe Cominetti (1882-1930), Edoardo De Albertis (1874-1950), Guido Galletti (1893-1977), Rubaldo Merello (1872-1922), Pietro Morando (1889-1980), Giovanni Prini (1877-1958) e Antonio Giuseppe Santagata (1888-1985). All’interventismo futurista e all’affermazione di una visione eroica della vita, si contrappongono i comportamenti di chi combatterà la guerra per senso del dovere, come presa di coscienza morale, senza alcuna militanza ideologica, affrontandone la tragicità in lavori non retorici, diversamente da altri dal contenuto più apertamente propagandista. Ogni artista ha fatto dell’esperienza vissuta in guerra, pur in un arco di tempo limitato, l’argomento di opere coinvolgenti, rivelatrici di un mondo interiore e di non comune tensione emotiva. Essi non si sono limitati a narrare dei fatti, bensì hanno evocato l’amara realtà sperimentata sulla loro pelle. I dipinti, i disegni e le xilografie di Aprigliano, Caselli, Discovolo e Mantelli, artisti che si conoscevano tra di loro e sono da noi spezzini affettuosamente apprezzati, precisano distinte modalità espressive e meritano attenzioni ben oltre il pur onorevole contesto locale. Ercole Salvatore Aprigliano nasce alla Spezia il 25 gennaio 1892. ”Pittore sprugolino” al pari di Caselli, secondo il felice attributo di Eugenio Brandolisio (1879-1939), già quindicenne è di casa nello studio del pittore Felice Del Santo, che “diventa così ben presto il piccolo regno di Ercole,”[10] ma è risaputa l’ammirazione che aveva per Antonio Discovolo, frequentato in seguito, collaborando alla rivista L’Eroica, fondata alla Spezia nel 1911 da Ettore Cozzani (1884-1971) e Franco Oliva (1885-1952). Incontrerà, inoltre, Filippo Tommaso Marinetti, Luigi Fillia (1904-1936), Enrico Prampolini (1894-1936), Lorenzo Viani, Mino Maccari (1898-1989), ecc. Oltre che pittore, Aprigliano si cimenta con successo nel disegno e nella tecnica xilografica. Sua è la xilografia di grande formato eseguita nel 1934 in occasione della riapertura al culto della chiesa paleocristiana di San Pietro a Porto Venere e dell’avvio del restauro della chiesa di San Lorenzo, consacrata al culto nel 1130 da papa Innocenzo II (+ 1143). Sono di Aprigliano le vetrate, purtroppo in pessimo stato, realizzate a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta, per la chiesa del Sacro Cuore di Gesù (1931), un tempo officiata dai frati Minori Cappuccini . Non sono le uniche realizzate dall’artista spezzino. Nelle vetrate, alcune sono in abitazioni private, Aprigliano ha saputo creare “pagine di una rara limpidezza caratterizzate da una puntuale intuizione della luce oltre che da una coordinazione fra impianto cromatico, narrazione ed eventuali supporti decorativi.[11] Arruolato in fanteria nella primavera del 1915, il pittore è inviato nella zona di Udine con mansioni di porta ordini e nei reparti sanitari. Nella mostra al Palazzo del Governo l’artista-soldato era rappresentato da due espressivi autoritratti in abiti militari, eseguiti a carboncino, uno dei quali con dedica alla mamma. Nel volto del pittore si legge sia la durezza della circostanza sia un’intima capacità d’introspezione. Con tratti rapidi Aprigliano ha rivelato la propria immagine di uomo maturo, chiamato a vivere l’esperienza di soldato. Sono ritratti ricchi di verità - tali sono gli ammirevoli disegni di Caselli - che evidenziano una personale ricerca formale partecipe della sua pittura “mite e serena”, così amabilmente aggettivata da Giovanni Petronilli (1907-1994), lodata in numerose mostre e nell’ampia retrospettiva del 1978. È nota, poi, l’adesione di Aprigliano nel 1920 al curioso gruppo della Zimarra, animato da Renato Cogliolo (1897-1981), Pietro Maria Bardi (1900-1999), Alberto Caligiani (1894-1973), Giuseppe Caselli, dallo scultore Enrico Carmassi (1899-1976), Francesco Gamba (1895-1970), Giovanni Governato (1884-1951), Francesco Gamba (1895-1970) e Cafiero Luperini.
Ritornando al periodo bellico, in una cartolina postale inviata il 21 febbraio 1917 a Caselli - prigioniero di guerra - il milite Aprigliano gli chiede come mai non risponda alle sue lettere (Carissimo Caselli Ma dimmi dimmi, io avrò scritto una infinità di lettere hai tu ricevute qualcuna?.....). Nelle poche righe che si concludono con: “Ti saluto ma sappi sempre ti ricordo, l’amico tuo Ercole” traspare l’affetto che lega i due pittori. Uno splendido Autoritratto (1906) di Antonio Discovolo, esposto nel salone del Palazzo del Governo, ha suscitato, e non poteva essere diversamente, unanime ammirazione. Il dipinto esprime la personale elaborazione della tecnica divisionista, adottata dal pittore dal 1903 al 1909 su sollecitazione di Enrico Lionne (1865-1921) e di Plinio Nomellini. Si avverte la maestria dell’artista, bonassolese d’adozione, rinnovata in altri lavori dello stesso periodo “seppure il tratteggio coloristico di Discovolo non ricerchi allusioni astratteggianti e nelle sue espressive immagini si percepiscano la tradizione classica, lo spontaneismo impressionista e la vivacità cromatica propria del divisionismo, perseguito senza mai esserne soggiogato”.[12] Più volte è stata evidenziata la ricerca di autonomia che permea l’esperienza discovoliana, tanto che Cozzani scriveva di “non aver timore nell’affermare che egli è uno dei più forti, sicuri, raffinati coloristi del nostro tempo: passato via via dal divisionismo aspro e scintillante a una più calma pittura a impasto, è rimasto sempre un analizzatore acutissimo della luce e un contrappuntista perfetto nel renderla come una musica della natura; la sua percezione e la sua espressione tonale non hanno rivali in finezza e concordia, ma egli è anche un poeta”.[13] Prova tangibile della statura del pittore è la sua robusta biografia, che annovera la Quadriennale di Roma e per tredici volte la Biennale di Venezia. Il tempo trascorso da soldato alla Prima guerra mondiale è narrato dettagliatamente nel libro di memorie del figlio Mauro (1909-1989).[14] Richiamato già quarantaduenne alle armi il 3 gennaio 1917, con il grado di sottotenente è destinato al Laboratorio di Mascheramento di Lancenigo (Udine), dove avrà come superiore il critico d’arte Ugo Ojetti (1871-1946). Nei due capannoni lavorava manodopera femminile. Discovolo raggiungerà successivamente Fontainebleau nelle vesti di rappresentante italiano nello Stato Maggiore del Camouflage. La mansione di “pseudo-scenografo”, che gli “procurò un gran piacere perché costituiva un diversivo pieno d’attrattive”,[15]consisteva nel colorare per usi bellici materiali che imitavano il terreno e la vegetazione tipica di varie località del fronte. Nell’esteso catalogo dell’artista è compreso il ciclo di disegni e acquerelli, probabilmente gli stessi commissionatigli dal maggiore Ojetti, forse, tuttora esistenti presso il Ministero della Difesa a Roma. Con il sospirato congedo Discovolo riprenderà a dipingere con lena e immutato slancio creativo, eseguendo ritratti, mirabili paesaggi colti senza enfasi nella pienezza del sole e al chiaro di luna, e decine di tele durante l’esilio mistico di Assisi, dove risiederà dal 1924 al 1926. Sono tuttora oggetto di diffusa ammirazione i maestosi dipinti del 1928 (La piana di Luni e Libeccio con ulivi), collocati nella sala consiliare del palazzo della Provincia della Spezia, inaugurato nell’ottobre dello stesso anno Ho già richiamato la fattiva vicinanza di Discovolo al fianco di Cozzani nell’esuberante impresa de L’Eroica, impegnata a rilanciare la xilografia, “arte italica, schietta, fiera, semplice e nobile”, con le parole dell’illustre letterato. Cozzani confidava sin da subito nel successo della sua “creatura” e scrive a Gabriele D’Annunzio (1863-1938) indicandogli le motivazioni e le peculiarità della sua pubblicazione al servizio della poesia, “unica espressione del divino nella vita umana”[16]. La rivista “doveva avere – per Cozzani - una veste degna, valendosi in modo particolare dell’incisione in legno, che è la forma grafica più adatta al libro e quasi connaturata con esso” e perseguire inderogabili finalità e cioè “suscitare la passione degli italiani per la poesia, ricondurre le giovani generazioni al rispetto dei Maestri, scoprire fra i giovani le forze nuove preparate da studi severi e sorretti da nobili intenzioni, e mettere in luce la loro opera.”[17] In un consistente saggio del 1926, pubblicato su L’Eroica, lo scrittore definisce Discovolo “tipo del galantuomo e del signore nella vita e nell’arte, dal portamento ancora giovanile e il gesto fervido e pur calmo”.[18] Il pittore fu un fine intellettuale e la casa di Bonasssola, progettata dall’amico Franco Oliva, fu meta di illustri colleghi, scrittori, poeti e musicisti. Intrattenne, infatti, relazioni non episodiche con Nino Costa (1826-1903), Giacomo Balla, Enrico Lionne, Plinio Nomellini, Lorenzo Viani, Mario Sironi, Arrigo Minerbi (1891-1961), autore del Gigante di Monterosso, Èmile Bernard (1868-1941), Margherita Sarfatti (1880-1961), Franco Oliva, Giacomo Puccini (1858-1924), Pietro Mascagni (1863-1945), Ada Negri (1870-1945), Sem Benelli (1877-1949), Enrico Pea (1881-1958), Giovanni Papini (1881-1956) Federigo Tozzi (1883-1920) ed altri ancora. La visitatissima mostra promossa alla Spezia nel dicembre 1982, definita ”cosa colta e raffinata,”[19] ha ripercorso, attraverso dipinti di prima qualità, la densa testimonianza artistica di Discovolo con il lodevole intento da parte degli organizzatori di offrire alle nuove generazioni l’occasione “di conoscere questo pittore e, attraverso lui, scoprire il profilo e l’identità di un territorio e di una sua epoca”.[20] L’Eroica richiama immediatamente la personalità di Emilio Mantelli, volontario nella Prima guerra mondiale, al contrario di Aprigliano, Discovolo e Caselli. Nel gennaio 1916 parte per il fronte, facendo propria la posizione interventista di altri collaboratori de L’Eroica. Prima di essere un artista dalle grandi prospettive lavorava nella panetteria del padre. Non è passata inosservato l’omaggio promosso nel 1998 dall’Accademia Lunigianese di Scienze “G. Capellini” con il concorso di altri promotori, per onorare la memoria della storica dell’arte Paola Paccagnini, immaturamente scomparsa nel 1995, finissima studiosa dell’opera di Mantelli. Un suo eccellente saggio valorizza il volume edito in occasione dell’evento espositivo e “mette in luce l’attività di Mantelli, vero e proprio protagonista nel ricchissimo capitolo della xilografia del nostro secolo”.[21] Lo sguardo della studiosa è rivolto sia su quei drammatici momenti che indurranno Cozzani a sospendere la pubblicazione della rassegna sia sulla situazione personale di Mantelli. “La lunga assenza dalla casa e dalla famiglia, - scrive - la perdita degli amici, i disagi della vita militare, però, non lo rendono inoperoso. Per 1'occasione, anzi, riprende in mano i pennelli, lasciando dodici tavolette dipinte in zona di guerra che - assicura chi, come il Cozzani, avrà modo di vederle - son dodici poemi e prosegue senza interruzione il dialogo col legno la cui tenace fibra - dirà ancora il Cozzani - rispondeva così bene alla fibra tenace del suo carattere. Ne riesce una produzione fittissima di legni di ogni qualità, incisi su tavole da baraccamento con il trino del calzolaio della compagnia o altro materiale di fortuna, secondo quella vocazione che è in lui da sempre a tentare tutte le possibilità della materia nobile. In prevalenza, legni a soggetto militare - cartoline celebrative, imprese destinate ai vari reggimenti, ritratti e scene di guerra - capaci d'imporsi per un segno sempre più concentrato e impervio ora ridotto al puro contorno (I reticolati), ora a brevi forme sommarie, ritagliate sul bianco dilagante del foglio. Come avviene nel Cambio e in Una scalata, dove le figure si traducono in un gioco d'incastri al limite dell'astratto e soprattutto nei Muletti, con quel ripido attacco di uomini e animali alla costa nevosa, di una sintesi così primitiva da evocare antichi graffiti rupestri. Sono queste degli ultimi mesi di guerra, la ultime xilografie incise da Mantelli. Riprendendo a pubblicare nel '19, a Milano, L'Eroica sarà listata di lutto”.[22] A causa di una malattia polmonare contratta in guerra il tenente Mantelli muore il 10 novembre 1918 in un ospedale da campo a Verona, a soli trentaquattro anni. Cozzani ne rimpiange la scomparsa affermando che “egli aveva già fatto tanto da lasciare non soltanto una indelebile impronta di sé nella storia della xilografia, ma il suo insegnamento a tutti gli artisti che l’avrebbero seguito nel tempo”.[23] Esprimerà, ancora, il suo profondo dolore additandolo come “il più vicino di tutti al nostro cuore”.[24] La stampa dell’epoca riferì sulla scomparsa del valente artista e quando nell’ottobre del 1920 la sua salma venne trasferita alla Spezia fu accolta da Caselli, Cozzani, Discovolo, Magli, Oliva, Viani e Gamba[25], allievo di Mantelli e lui stesso collaboratore fin dal 1914 de L’Eroica. Sarà Eugenio Baroni (1888-1935), scultore di prestigio, autore del Monumento ai Mille (1915) a Quarto di Genova e volontario nella Grande Guerra, a modellare il volto dell’amico, posto sulla tomba nel cimitero dei Boschetti alla Spezia.. Mantelli scolpiva il legno con fermezza. L’intaglio diventava sfumatura, dettaglio psicologico, effetto di luce. Le sue xilografie, comprese quelle sulla guerra, sono pagine autobiografiche recuperate da una memoria lucida, che annotava nella mente e nella coscienza emozioni e interrogativi. Egli seppe sostenere con determinazione e consapevolezza la contrapposizione con Adolfo De Carolis (1874-1928), interprete di una concezione aulica della tecnica incisoria. Per Mantelli, invece, “la xilografia deve vivere di essenzialità, di una formulazione apparentemente elementare, del rifiuto di ornamenti involuti e inutili, del desiderio di inseguire il vero. Dirà – sostenuto da Cozzani - che occorre fermare l’idea, renderla evidente, esprimerla attraverso un senso di mistero e di nobiltà, conservare sempre una elegante sobrietà in modo da non dire né di più né di meno”.[26] La guerra porterà via preziosi collaboratori della rassegna di Cozzani, quali erano Gino Barbieri (1884-1917), Giovanni Costanzi, Roberto Fumagalli e il poeta Vittorio Locchi (1889-1917), al cui nome la città della Spezia ha intitolato una via nel 1958.[27] Locchi, caduto durante il siluramento di un piroscafo, è l’autore de La Sagra di Gorizia, poemetto in versi liberi con xilografie di Gamba, pubblicato dopo la sua scomparsa nella collana I Gioielli, emanazione de L’Eroica. Dell’avvenuta conquista della città, il giovane poeta infonde il suo entusiasmo a Discovolo inviandogli l’8 agosto 1916 una cartolina postale del seguente tenore: “Metti fuori quella tua bandiera pronta da tanto, alzala sul più alto pennone del Tirreno, l’incanto maligno è rotto e siamo nella città promessa”. La guerra sarà, purtroppo, la tomba per altri artisti. Meno famoso è il genovese Giovanni Ardy, più celebri sono i futuristi Umberto Boccioni (1882-1916), Antonio Sant’Elia (1888-1916), i tedeschi August Macke (1887-1914) e Franz Marc (1880-1916), colleghi di Wassily Kandinsky (1866-1944) ed esponenti del Blaue Reiter, i francesi Henri Gaudier-Brezska (1891-1915) e Raymond Duchamp Villon (1876-1918), fratello del più conosciuto Marcel. Giuseppe Caselli, infine, è preso prigioniero il 13 novembre del 1915 durante la conquista di Oslavia, località goriziana custode dal 1938 di un sacrario militare con le spoglie di oltre cinquantasettemila caduti della Prima guerra mondiale. Parlano da soli gli oli e i commoventi disegni sui quali non è mai sceso il silenzio, che certificano il tempo della non breve prigionia trascorsa a Mauthausen da soldato del 28° Reggimento Fanteria. Su di essi è stato scritto molto ed è voce condivisa la loro collocazione “fra le più profonde e amare testimonianze visive della Grande Guerra”.[28] Dal segno mai incerto di Caselli, che nel 1910 è nello studio di Felice Del Santo, si deduce che egli sia alla ricerca di nuove soluzioni figurative e da quei tratti sicuri erompe un clima emozionale e traspare il mondo più intimo dell’artista e dei compagni di sventura. Sono opere che fissano angosciosi episodi umani; documenti di pietà e di verità. Dipingere e disegnare sono atti per affermare la propria esistenza, pur esternata nella tristezza di fragili e malinconiche figure dall’asciuttezza straordinariamente incisiva. Sono limpide testimonianze della talentuosa espressività di Caselli, che trascrive senza enfasi la detenzione a Mauthausen in disegni semplificati, caratterizzati da una intelligente intonazione caricaturale non lontana da quella dell’amico Lorenzo Viani, che considerava “la caricatura la forma più profonda dell'arte”, aggiungendo che “chi non ha in sé questo sguardo compenetrante delle eccezionalità delle cose, non può essere mai un artista”.[29] “I soldati, disegnati con tratti rapidi e duri, - scrive Francesca Mariani - sono personaggi anonimi, che, però, posseggono, fortemente incisa, la dignità di uomini, mentre i prigionieri, in quella situazione di annientamento della persona, sono diventati numeri sia quando sono annullati individualmente all'interno di un gruppo sia quando sono ritratti nella loro solitaria tragedia”.[30] In quelle opere - ho argomentato in altra occasione - il coinvolgimento e la partecipazione al dolore sono massimi. Compito dell'artista - sembra suggerirci Caselli - è quello di tuffarsi nel labirinto dell’esistenza non sfuggendo l'onere delle responsabilità, poiché non esiste alcuna separazione fra l'arte e la vita. Nei disegni di quel fervido periodo creativo affiorano profondi sentimenti umani e Caselli intensifica l'espressività del segno proponendo uno spaccato di umanità palesemente cupa e abbruttita.[31] Prova inconfutabile del “soggiorno” obbligato a Mauthausen, durante il quale non si ha conferma di contatti intrattenuti con il pittore austriaco Egon Schiele (1890-1918),[32] è una fotografia, ben commentata da Renato Righetti (1910-1990) nell’esaustivo testo pubblicato sul catalogo della retrospettiva del 1981 al Centro “S. Allende”. Il critico, protagonista con altri della ventata spezzina che ha nobilitato il Secondo Futurismo, scrive che quella foto, nella quale Caselli si distingue per l’inseparabile sciarpa “coglie un momento della vita che i pittori prigionieri vivevano in quel campo, non abbandonati all'inerzia che li avrebbe distrutti spiritualmente, ma posti, con un tratto di civiltà che oggi ha dell'incredibile, nella condizione di poter riprendere a lavorare con tavolozze e pennelli, per sentirsi uomini ancora vivi nella libertà dell'arte, nonostante l'angoscia della cattività”.[33]
Cospicua e interessante è, inoltre, la corrispondenza, talvolta parzialmente censurati dall’Autorità militare, intrattenuta dal prigioniero, ospite nella baracca 52 e successivamente trasferito nella 78, la cosiddetta “baracca degli artisti”, con il padre Carlo (1867-1944), accreditato studioso dai vari interessi scientifici e con amici, colleghi e conoscenti. Caselli chiede indumenti e alimenti al padre, libri d’arte a Cozzani, materiale da lavoro a Discovolo, notizie ad Aprigliano, sottolineandogli ironicamente la bella differenza del suo essere alla Spezia e lui a Mauthausen. In un’altra cartolina chiede al padre come ha trascorso la festività di San Giuseppe, patrono della Spezia. È uno spaccato assai umano e commovente, cosparso di amicizia e di affetti, valori che aiutano Caselli a sentire la vicinanza di persone care. Nella lodata mostra al Palazzo del Governo, unitamente agli oli, ai disegni e alle cartoline postali, venne esposto un sagace autoritratto del maestro spezzino, realizzato con terra o, probabilmente, con fango. Colori improvvisati ed insoliti, per dare forma ad un volto efficacemente espressivo, che solamente i pittori di razza potevano eseguire. Caselli ne aveva la reputazione, anteponendo la riservatezza al protagonismo. Forse, è stato un suo limite. Tra forme e colori l’arte attualizza la storia e, con la vitalità mai venuta meno delle ammirevoli opere che essa cataloga, ravviva il non nostalgico interesse sugli esemplari contributi artistici ed umani maturati negli anni della Grande Guerra.
[1] Paolo De Nevi, I cromatici ribelli e temerari, in Tucrito Balestri – Il futurista del riserbo, Luna Editore, La Spezia, 2009, p.15 [2] Gianguido Balestri, Tucrito Balestri – Il futurista del riserbo, Luna Editore, La Spezia, 2009, p.21. [3] Eleonora Acerbi, Il Futurismo alla Spezia negli anni Dieci e Venti, in Futurismi: aeropittura, Aeropoesia, Architettura del Golfo, Amilcare Pizzi spa, Cinisello Balsamo (MI), 2007, p.19. [4] Gianguido Balestri, op. cit., p.48. [5] Giuseppe Appella, La pittura come strada tra l’occhio e l’anima, in L’Osservatore Romano, 31/01/1988, p.3. [6] Comunicato di presentazione della mostra La Grande Guerra degli artisti- Propaganda e iconografia belica in Italia negli anni della Prima guerra mondiale, a cura di Nadia Marchioni, Museo “Marino Marini”, Firenze, 03/12/2005. [7] Marzia Ratti, Opere di Mantelli, Discovolo e Caselli al Museo Marini di Firenze, in Il Secolo XIX, Genova, 12/12/2005. [8] Franco Sborgi, Eppure c’è qualcosa di bello in questa guerra, in catalogo della mostra Da Baroni a Piacentini, Skira, Ginevra-Milano, 2009, p.51. [9] Pier Carlo Santini e altri, Angiolo Del Santo (1882-1938), Officine Grafiche Lucchesi, 1992, p.61. [10] Renato Righetti, Quaderni d’arte 6, edito dalla Litografia Europa-La Spezia, in occasione della mostra retrospettiva, dedicata a Ercole S. Aprigliano dal Comune della Spezia, Centro “S. Allende”, La Spezia, 21/01/1978, p.9 [11] Ferruccio Battolini, Ercole Salvatore Aprigliano, in Rivista della Camera di Commercio della Spezia, n.3, 1990, p.71. [12] Valerio P. Cremolini, Antonio Discovolo, poeta del colore e della luce, Le Voci, Quaderni di Aidea La Spezia, n.7, 2007, p.18. [13] Il brano di Ettore Cozzani è pubblicato sul catalogo della serie Quaderni d’arte 21, edito dalla Tipolitografia (SP) in occasione della mostra retrospettiva, allestita al Centro “S. Allende”, La Spezia, 15/12/1982. [14] Mauro Discovolo, Antonio Discovolo mio padre pittore, Edizione Farnesiana, Piacenza, 1983. [15] Mauro Discovolo, op. cit., p.195. [16] Ettore Cozzani, Alcuni dei miei ricordi, Giardini Editori e Stampatori, Pisa, 1978, p.75. [17] Ettore Cozzani, op. cit., p.75. [18] Ettore Cozzani, Antonio Discovolo, L’Eroica, Anno XV°, Quaderno 101, p.10. [19] Germano Beringheli, Antonio Discovolo, un maestro fra naturalismo e divisionismo, Il Lavoro, Genova, 9/1/983, p.3. [20] Dal testo dei Comitato organizzatore della mostra retrospettiva (v. nota 12). [21] Raffaele Monti, Emilio Mantelli xilografo, Maria Pacini Fazzi Editore, Firenze,1997, p.8. [22] Paola Paccagnini, Uno xilografo per L’Eroica, in Emilio Mantelli xilografo, Maria Pacini Fazzi Editore, Firenze,1997, p.22. [23] Ettore Cozzani, L’Eroica, 217-218, 1936, p.28. [24] Paola Paccagnini, op. cit., p.23. [25] Sull’opera di Francesco Gamba si richiama la monografia edita dalle Grafiche Lunensi-Sarzana, per conto dell’Accademia Lunigianese di Scienze “G. Capellini”, in occasione della mostra del 24/02/2005, allestita presso la Palazzina delle Arti della Spezia. [26] Valerio P. Cremolini, Emilio Mantelli, xilografo del quotidiano, Rassegna Municipale, La Spezia, n.17, 1984, p. 38. [27] Augusto C. Ambrosi, Straviario, Stabilimento Tipografico Fabbiani, La Spezia, 1983, p.168. [28] Marzia Ratti, “L’Eroica”, l’interventismo e i diversi modi di vivere e di rappresentare la guerra, in catalogo della mostra Da Baroni a Piacentini, Skira, Ginevra-Milano, 2009, p.116.. [29] Piero Bigongiari, Il Cosmo sperato come società umana, Il Popolo, Roma, 5/07/1980. [30] Francesca Mariani, Testimonianze artistche dell’Archivio Righetti – Opere grafiche, in Il senso dell’eroico, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo, 2001, p.117. [31] Valerio P. Cremolini, Giuseppe Caselli, il fragore del mare e il cuore della vita, catalogo edito da La Poligrafica, La Spezia in occasione della mostra Rudolf Claudus Giuseppe Caselli, Fondazione Carispe, La Spezia, 2012. [32] Un dipinto su cartone dal titolo Prigionieri (1916-17) è accompagnato da una dichiarazione autografa di autenticità, datata 13/02/2010, del pittore Francesco Vaccarone (1940). Assegnato al catalogo delle opere eseguite da Caselli durante la prigionia a Mauthausen, Vaccarone lo reputa “un’interessante testimonianza delle sue attenzioni verso la Secessione viennese ed accredita, - scrive testualmente - nello stile e nell’impianto grafico, i suoi possibili rapporti con Egon Schiele, di cui lo stesso maestro Caselli mi riferiva quando frequentavo il suo studio negli anni Sessanta e Settanta, accennandomi che Schiele, essendo molto malato, era stato ritirato dal fronte con funzioni di sovrintendenza ai prigionieri”. [33] Renato Righetti, Alcune notizie su Caselli, Quaderni d’Arte n.20, Tipolitografia, La Spezia, 1981, p.14.
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